La poesia può ricreare, elevando dall’uso comune il linguaggio e i suoi artifici, lo stato emotivo che un paesaggio, un accadimento, una persona possono dettare.
La poesia è epifania del mondo allo stato nascente, è costruzione e temporalizzazione dell’io e della sua esistenza, è spazio e luogo dell’impermanenza, è libro sussidiario della memoria, del vissuto, del non visto e del visibile, è rivelazione, invenzione, tradizione (interterstuale).
Per me è la cosa più vicina all’amore.
Di Guglielmo Campione ho letto Epiphaino (Mantova, 2017), Dodici mesi. Dialoghi sul tempo (Milano, 2018) e in bozze Le divisioni del mondo (Città di castello,dicembre 2019).
Sono un lettore che riconosce al poeta la consapevolezza della scrittura, quando nasca dall’inconsapevolezza dell’ispirazione, e che rimprovera al critico la tendenza all’ascolto di sé nello smontare e rimontare un testo.
Una poesia è fatta di parole, della loro organizzazione di suono e di figure, di contesto storico e culturale, sarebbe sufficiente leggerla e, abbandonando ogni intuizione impressionistica, leggerla ancora, perché ogni volta è come se fosse la prima e, comunque, mai l’ultima, sarebbe sufficiente promuovere la magmatica lingua poetica a coautore.
La poesia, quella in generale, già generata dalle «occasioni», si autorigenera nel momento stesso della scrittura e diventa labile nel momento della lettura.
«E l’unità sublima / tutto ch’era disperso», «la bellezza m’innamora / e la grazia m’incatena»: potrebbero essere questi catartici versi di Preludio e fughe di Umberto Saba il migliore esergo e la chiusa migliore della raccolta LE DIVISIONI DEL MONDO , la cui poesia eponimica è un invito proemiale e programmatico alle composizioni come superamento delle divisioni.
La prima sezione comprende quattro testi metapoetici, Prosodia, Diadocokinesis, Semi divinità e Addio alla poesia.
La poesia che parla di poesia e l’io che parla di sé come un pittore in un autoritratto.
In Prosodia le parole di un vecchio biglietto ritrovato diventano note di uno spartito interiore, risalendo in una climax sinonimica di respiro e sussurro dall’ispirazione alla sinfonia (del tramonto), dall’informe grigio a tutti i colori, dal rumore senza suono al suono, che, agendo sull’udito, si fa attenzione e attesa.
Il mare è musica e parole, il vento è musica e parole, anche la diadococinesia delle dita su un pianoforte o delle onde del mare in tempesta sono musica e parole.
«Come sempre / fanno tremare / le sacre cose della terra / unite al cielo»: questi versi chiudono Addio alla poesia, dove lo spessore espressionistico («una nera cornacchia gracchiante», «gli antri delle streghe malefiche») cabota le allitterazioni consonantiche e sillabiche in direzione di un tono salmodiaco proprio di un fare poesia, il cui «nome / sia sempre / la parola del silenzio / pronunciato senza traccia d’ombra / o di tristezza / eppur tremando».
E se il perché del poetare è la tensione all’incorrutibile che rende l’uomo altro dall’indifferenziato animale (Semi divinità), la sua funzione etica è quella di fondare il senso (fondando il senso la nostra specie diventa darwinianamente unica) e mantenere l’umanità in comunicazione con se stessa.
Testi metapoetici sono già in Epiphaino: L’Altro e l’Oltre («Della poesia resterà / l’amore per l’Oltre /… / L’amore per l’Altro / resterà pure») e Fedeli di Apollo («e aneliamo /… / alla poesia / che canta / la canzone della purezza»).
E’ il punto che può essere descritto da infiniti altri punti, quello che Valerio Magrelli in Ora serrata retinae chiama «passione geometrica» ([Senza accorgermene ho compiuto]), a indicare la visione fotografica dall’alto («Il mio pensiero è una terrazza»), prima di cogliere in Nature e venature il «misurato orrore» ctonio delle «cose / guaste e corrotte» ([La spiaggia, il legno fradicio, i copertoni]), quello che l’erosivo Fabio Pusterla in Concessione all’inverno bolla, neutralizzando come poesia fumosa e irredimibile la consistenza dei tramonti rossastri e l’insistenza dei mormorii delle gazze o di un qualunque altro cicaleggio (C.D.D. che sta per Come dovevasi dimostrare).
Indietro nel tempo, nell’Ottocento che moriva, in Salut di Stéphane Mallarmé, che tanta parte ha avuto nella mia vita di lettore, balenanti sirene, simbolo della poesia, si tuffano, alcune riverse, in una coppa, di cui il verso neo-nato è la schiuma, l’essenza.
Per Mario Luzi la poesia è la voce che dà voce alle vicende umane e che, interrogandosi sull’essere e il suo rovescio, il nulla, incontra il silenzio.
L’una è la necessità del dire, l’altro l’impossibilità del dire.
Avvento notturno è l’avvento di una voce, il silenzio, che trova - la ricerca era cominciata in La barca - , il bagliore dell’Assoluto, ma solo per un attimo.
Ostensivo del tema della voce e del silenzio è l’avverbio deittico «dentro», anche sostantivato in Vasi canopi, che marca il soggetto in Parole ultime, Meditazione su un fiore di carciofo e Dentro / un sussurro.
C’è il dentro della perfezione dell’esistenza interiore opposta al fuori dell’imperfezione dell’effimero, un dentro già luogo della poesia lirica e dell’io pago di ciò che può realizzare in se stesso, c’è il dentro il flusso degli opposti e delle contraddizioni dei giorni.
La voce non può voler dire, non può voler essere, ma può superare ogni differenza tra un dialogo senza l’altra voce e un monologo con una sola voce, trapassando il soggetto nell’heideggeriano Da-sein, esserci, esistere nel mondo in un momento del tempo in uno stato emotivo, essere per nascita, il che comporta il fare, il poiein che accomuna conscio e inconscio.
La parola non basta a mostrare l’essere e può rivelare il non essere in «un abisso privo di eco».
Non a caso quel silenzio è per mariage des contraires «vivo» in Canzone di una primavera che non deve morire e vive nell’intenzione descrittiva dell’assillabazione (penSIeri, Singulto, S’arresta, SIlenzio muSIcante).
Il bagliore dell’Assoluto ha il suono e la luce del fulmine.
Segno della saggezza di Dio come creatore nell’Antico Testamento e nel Nuovo Testamento segno della fine dei tempi, il fulmine è l’abbraccio di cielo e terra («Come Terra e cielo / nel mistero del fulmine / s’attraggono / le anime / nell’universo», Altrove nel firmamento, nel libro Epiphaino).
Ma più dei corpi, più delle anime, che come il lampo sono «prodotto di differenze», più dei poli del buio e della luce interessano i metaforici estremi paralleli della vita che si svolge nel tempo della storia e della vita che risolve il suo corso nella conoscenza senza tempo dell’eternità.
Approppriarsi della realtà è impossibile.
Se il fulmine è il più aoristico dei fenomeni naturali («attimo che anticipa la sua Ora», La verità del fulmine), il vento è il più sovversivo per quel curiosare «fra le sottane / e i capezzoli», ma anche per quel rendere leggeri, privando: «staccava / … / e dalle mani i palloni / strappava / dagli occhi le ciglia / dai fiori i soffioni (Il vento di Albornoz), scioglie «i legacci / di albero e vela», facendo coincidere storia personale e storia universale (Dioniso e il vento).
Non stupore, né smarrimento, ma un lieve movimento di pensiero e fissità dello sguardo e della mente.
Fissità di uno sguardo, che è sempre frontale, senza preclusioni, senza la «… nuvola fredda / che in un istante è grande quanto il cielo» (Natura fredda, da Rosso d’Alicudi di Corrado Calabrò) e da un non luogo probabilmente visitato («Dall’alto di un monte / un cimitero di fronte», Il vento di Albornoz; «Il mare di fronte», Mare nero) come se, cercando le coordinate esistenziali, le trovasse in un paesaggio esteso e ordinato tale da rovesciare la distanza tra guardante e guardato nei versi visionari «correva negli occhi / la strada in salita» (Il vento di Albornoz) e, riferiti al colore del mare, negli splendidi versi, per me i più alti, «nero / e un po’ azzurro / di quel buio / calmo / che sempre sta / nella lieve brezza / di morbido velluto» (Mare nero).
Come non ricordare Les fenêtres del poeta Mallarmè, la cui vitre divide dall’azzurro infinito, prima rivelandolo, poi accogliendone i casti riflessi mistici o il più vicino «cresce il colle fiorito / a noi s’affaccia come in un bicchiere» nell’affannosa Il figurante da Glenn di Maurizio Cucchi.
Fissità della mente che, seguendo il profilo di prati e di colline, indugia su un pesco in fiore.
I pensieri assumono ora l’incedere ondoleggiante delle colline (Canzone d’una primavera che non deve morire), ora l’inquietudine morbida dei riccioli (Ricordo di Talma) in un movimento di attesa da una geografia quasi mai rivelata a una geografia interiore, al contrario, più dilatata in immagini e simboli.
La sorgente di essi è anche il mito, vissuto senza estraneamento, tanto più che lo strappo ovidiano di Pìramo e Tisbe, amanti suicidi, il cui sangue colora il gelso un tempo bianco, è di quelli a bassa frequenza. «Di Piramo / maturi il rosso gelso / che parve sangue / sulle vesti di Tisbe» (Giugno, dal libro Dodici mesi).
La vita è fissità e metamorfosi, è presente che diviene e divenire uguale a se stesso, tempo senza storia.
Quante privazioni porta con sé il vento così come il mare che fa sentire il dannunziano sciabordare degli ossi di seppia nell’oblio del tempo camaleontico o lo sciabordio del sangue nella risacca (Prosodia).
Ricordo un distico di Mario Luzi «guardo la chiara lamina febbrile / del giorno, mentre in cielo è già inverno» (Pur che, da Primizie del deserto) a significare il divenire eterno in un punto astratto del tempo, in una stanza astratta.
Sembra che la parola poetica dissolva, già nominandola, quella realtà che in Plenilunio sul fiume parlando ad una barca «… è la meta a cui aspiro / eppur quella / che mi uccide davvero», dove la produttiva congiunzione avversativa «eppur» assolve a una carica esplorativa, affermando e non negando il senso del viaggio.
Il soggetto vuole certificarsi:
in Lame di luce le onde, metaforicamente coltelli, lame luccicanti, infatti aspirano a separarsi dal mare genitore «per trasmutare in sola luce», ma constatiamo l’approdo statico dell’«onda che si perde a onda» e della «luce che si perde a luce».
E’ l’alternanza di moto e immoto, sintetizzata ancora da Mario Luzi nell’explicit di una poesia della sezione Altre voci di Dal fondo delle campagne: «Pensieri eterni nella mente inerte», che esprime nell’anagramma inerte-eterni, perfetto e specularmente doppio, il desiderio sotterraneo di superare ogni umana divisione dettata dalla contingenza e di silenziare ogni interrogazione, e che si fa doloroso archetipo in una poesia (o un suo lacerto) di Alberto Bevilacqua, che cito a memoria: «Al nostro che è naufragio / appena s’inizia, / il suo viaggio congiunse / per conoscere, tra moto / e immoto, il reciproco / che l’eterno sorregge.».
La voce, il silenzio, lo sguardo, il dentro sono alcuni isotopi della poesia di Guglielmo Campione, asindetica e paratattica, almeno lo sono per me che forse, leggendo, interpreto e, interpretando, mutilo il suo messaggio.
La poesia classica si è guadagnata nel tempo l’oggettività della lettura, ad esempio, di un mito, la poesia dei Romantici la soggettività, la poesia moderna ha preteso l’associazione e la proiezione di una conoscenza molecolare.
«Perdi il tuo volto / ama senza ricordare / vivi senza fare il punto» significano il dover essere nel flusso della realtà («Io e Te / non siamo che flussi.», Vivi senza fare il punto), di cui si vuole lacerare il velo, a dire il vero già logoro. Sono le coordinate dell’anima, lasciando che a dargli vanità di anima fiorita siano il sole come nella sonora Dat rosa mel apibus, vivace per l’osmosi chiasmatica di animato e inanimato nell’emotivo iperbato «un basso ronzio di dolci corolle / s’avanza / su campi infiniti di variopinti / calabroni» e ne Il sole, re geometra e bonzo, dove si rincorrono suggestioni pitagoriche e baudelairiane.
Nella poesia universale la natura, dei fenomeni della quale spesso l’uomo contemporaneo non ha esperienza, è uno strumento comunicativo altrettanto universale.
Puro e icastico come nell’eponimica Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo, sicuro approdo di una qualunque antologia: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.» o simbolico come nelle Correspondances di Charles Baudelaire «La nature est un temple où de vivants piliers / laissent parfois sortir de confuses paroles».
Pilastri sono gli abeti dalle « … cento braccia / guardiani …» delle montagne (Le cento braccia degli spiriti abeti), simbolo di eternità, e, in antinomia, il fiume e il mare (Piange il fiume la sua fine), simboli di intemperanza e di saggezza, destinati tuttavia a fondersi.
Non è possibile non pensare al naufragio necessario dei fiumi nella poesia di Friedrich Hölderlin: fluiscono, vagano e terminano nel Tutto che è il mare, essendo il defluire nel Tutto il travalicamento nel positivo, in controcanto, dal negativo di ciò che è umano, che ha la proprietà dell’effimero. Non è pessimismo, solo una constatazione di quella caducità alla quale Sigmund Freud ha dedicato un breve scritto, affermando che essere limitati nella possibilità di godere di una cosa aumenta la sua preziosità. Come dire - e Hölderlin ne era convinto – che la gioia si percepisce meglio nella morte e nel lutto.
La poesia come luogo dell’essenziale, ma l’essenziale non è, si conquista, è forse l’ombra liminare e reciproca del dentro e del fuori, forse la coscienza in cerca di una relazione con i propri fini, forse l’intelligenza delle cose più delle cose, forse i frantumi di un paesaggio mai frammentato.
Ho letto le poesie di Guglielmo Campione, viaggiando in aereo da Roma a Sofia, seduto tra un pope e un sacerdote della Chiesa cristiano-armena.
Ho scritto questi appunti di notte, nell’ora «più intera del tempo» coems scrive Campione, nell’occhio di colore di una lampada, in una stanza affacciata sui libri del mondo, in una città antica, in una terra di mezzo, senza patria, senza interruzione né esitazione, cercando colpevolmente le mie corrispondenze più di quanto cercassi quelle di Guglielmo, al quale mi lega un filo, appena ora interrotto, di memoria.
Ho scritto questi appunti, cercando i versi dei poeti nelle trasparenze della memoria, mia per vocazione naturale, e in un prezioso «quadernetto alla polvere», mio per l’inframmettenza negligente di un maestro universitario, che ancora oggi considero un «nido antico» coperto da muschio verdeggiante.
L’ho fatto contro la mia natura, perché vorrei vivere ogni giorno della mia vita aerea in «una palpebra di cielo» e amare velandomi come fa il diospironell’autunno più caliginoso.
L’ho fatto per amicizia in un solstizio di dolore comune, perché spesso un «roseto di parole» fiorisce come ruggine.
Michele Palmiotto
Giovinazzo, Bari, 1957- 2024
È stato allievo del Liceo classico Quinto Orazio Flacco di Bari e successivamente uno studioso di Diplomatica , la scienza che ha per oggetto lo studio critico dei documenti al fine di determinare il loro valore come testimonianza storica, che lo ha portato in molti paesi esteri a compiere le sue ricerche e a insegnare.
Curatore di un’edizione critica delle antiche pergamene dell’archivio della diocesi di Bovino (Fg) è stato un profondo cultore di Teologia e di Poesia in ispecie di Lalla Romano e Leonardo Sinisgalli, oltreché di poeti pugliesi e lucani del novecento.