EPIPHAINO di Guglielmo Campione . Recensione di Mariano Grossi .



Un volo di uccelli 
nel vento di levante
indicava una via diversa
per il ritorno, 
non quella per la quale 
venisti presa per lo scontento 
delle cose fin lì sapute 
scrutando le stelle 
nello stesso cielo.
Non si può tornar
per la via vecchia
se quel che hai visto
t’ha cambiato lo sguardo.


Questo l’exordium della raccolta “Epiphaino”, scritta da Guglielmo Campione e che abbiamo umilmente provato a vertere nelle lingue classiche, ispirati come siamo stati dall’aura sacrale che la lettura delle sue liriche ci ha ingenerato, poiché riteniamo capace quant’altri mai l’uomo, il credente, l’analista, autore della raccolta, di cogliere nella lettura delle Sacre Scritture valenze pragmatiche che si pongono alla ricerca di un messaggio estremamente umano e meno trascendente rispetto a quello che una certa bigotta cultura fideistica vuole far intendere; il riferimento nemmeno tanto recondito alla visita dei Magi a Gesù Bambino, il cui gnomon è già nel titolo della silloge, diventa occasione per una docimologia di natura principalmente psicologica: l’invito a non fidarsi dell’opinione comune, lo sprone a guardare la realtà con i propri occhi e riconsiderare il pregiudizio, rischio che ogni uomo di qualunque livello sociale, estrazione culturale e humus storico inevitabilmente corre; vedere coi propri occhi significa capire e rivoluzionare i propri programmi. Le lingue classiche con la loro capillarità compositiva morfologica e lessicale, a mio giudizio, corroborano ed aiutano questo orientamento, dacché un verbo ordinario, oseremmo dire, come cambiare si trasforma in convertereovvero methistemi, le cui preposizioni (cum e metà) marcano quasi fisicamente l’effetto ribaltante della decisione consequenziale alla visione ottica di ciò che si è andati a cercare.

Uscendo
dal tempio
onorata tomba
per colui che porta
nome di vittoria
e un libro con tre sfere d’oro in mano
si mescolavano
profumi d’incenso urina, semola, ragù e alghe
nel vento freddo di maestrale
e nel mio cuore
il senso del mistero infinito,
del viaggio,
della casa
e delle urgenze carnali.

E se qualcuno, fuorviato dall’argumentumdella prima lirica, può pensare ad una raccolta tutta spiritualista, ecco che l’autore ci “cambia lo sguardo”, convertit oculos nostros, poiché la successiva costituisce il biglietto da visita dell’uomo mediterraneo perfettamente in bilico tra spirito e carne, anelito d’internazionalità e senso del nostos; un viaggio nella basilica nicolaiana può davvero costituire per i forestieri un’ermeneutica quasi fisiologica e succedanea del messaggio contenuto nella prima poesia: la città vecchia, con le sue attiguità antipodiche così amalgamate, invita a cassare i luoghi comuni e a postarsi come uomini nuovi e gravidi di ossa e sangue, di anima e corpo. 
Ed anche qui, inutile dirlo, ecco la centrifuga delle sensazioni psicolfattive che l’uomo annusa. 
Lasciando il tempio più etimologicamente mediterraneo del globo terracqueo (basta venire a Bari e sostarvi per capire il crogiuolo di razze che vi si concentra), viene esaltata dalla traduzione gravida di quelle prefissività (com-misceo, sum-mignymi) che l’italiano sovente trascura.

Spira nell’italiano solenne e per certi versi eccezionale di Guglielmo Campione l’aspirazione a riconquistare certe tonalità e bradipodie filologiche che la modernità ha ineluttabilmente smarrito: la dovizia dei congiuntivi nelle loro differenziate sostanze esortative ed ottative, la ciclicità delle interrogative dirette e indirette, gnomoni di un uomo in assidua sagola interiore, l’attitudine all’azione qualitativa più che alla sua semplice riproduzione cronologica, son tutti attributi formali affini alla classicità e sorge pertanto naturale l’input a guadare le sue poesie in lingua latina e greca, gli uteri in cui il suo italiano venne concepito. 
E il traduttore si arrischia con piacere nelle prolessi dei complementi di specificazione, nell’elevazione attributiva dei complementi di materia, nella posposizione dei verbi in finale di proposizione, ritemprando la consanguineità ematica del suo scrivere con la suggiuntività (restituzione in lingua albionica e castigliana del modo che noi italiani chiamiamo congiuntivo) e l’ottatività del greco antico che riesce a magnificare spessissimo le sue abituali subordinate narrative per mezzo del Genitivo assoluto, gemello dell’Ablativo assoluto latino.

Agli studenti liceali italiani d’oggi già questi approfondimenti sintattici possono sembrare estranei e sorpassati, ma io li stimolo a leggere le poesie di Guglielmo per attizzare un esercizio di episteme sostanziale e non solo formale, poiché, al di là dell’abito lessicale e stilistico, esse sono dotate di un caposaldo di formazione mitologica trasfuso cristallinamente nei più specifici concetti psichici e sarà gradevolissimo per loro, procedendo nella lettura di poesie come “Altrove nel firmamento”, “L’Oltre e l’Altro”, “Sale e Luce”, “Acqua”, o i dialoghi di occhio e anima o “Mille e una notte”, scoperchiare le sterminate competenze bibliche, mitologiche ed omnicomprensivamente storiche di questo poeta prestato alla psicanalisi. 

E l’impulso a leggerlo in lingue che oggi si definiscono morte sarà enormemente vitale!





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