STORIE DI TAWAIF ALLE CORTI MOGHUL IN INDIA. (1526-1857)

 




1.

I Moghul erano una dinastia musulmana che governò gran parte dell'Asia meridionale (l'attuale India, Pakistan e Bangladesh) dal XVI all'inizio del XVIII secolo. Furono responsabili della diffusione dell'Islam nella regione e fondarono un impero che divenne famoso per la sua ricchezza, il mecenatismo artistico (con opere come il Taj Mahal) e la sua influenza culturale. 
L'impero fu fondato da Babur nel 1526 e discendeva da Tamerlano e dai Mongoli.
Raggiunse il suo apice sotto imperatori come Akbar, noto per la sua tolleranza religiosa, e Shah Jahan, il cui regno è spesso associato alla grande architettura moghul.
L'impero iniziò a declinare dopo la morte di Aurangzeb nel 1707, anche se i resti del potere moghul sopravvissero fino al 1857.
I Moghul erano musulmani che regnavano su una popolazione prevalentemente indù e, pur con tensioni, il loro regno fu caratterizzato da una notevole tolleranza religiosa. La loro influenza culturale si manifestò nell'architettura, nella pittura e nella diffusione dell'Islam. 

2.
TAWAIF

Per diventare tawaif, a Dharmman Bibi erano stati insegnati tutti i trucchi per far innamorare di sé qualsiasi uomo. Altrettanto importante, era stata ripetutamente ammonita a non innamorarsi mai di un mecenate; era un'emozione, l'avevano avvertita, che confondeva la mente, offuscava il giudizio e indeboliva la capacità della tawaif di ottenere il massimo dal suo amante finché le cose andavano bene.
La zia di Dharmman Bibi, Zahooran, era una tawaif estremamente popolare a Shahabad da giovane. Sebbene fosse già ben oltre la mezza età quando Dharmman catturò l'attenzione di Babu Kunwar Singh, Zahooran non era ancora in pensione e aveva a sua completa disposizione alcuni amanti ricchi e influenti. Nota per la sua lungimiranza nella scelta dei suoi clienti, si diceva che Zahooran potesse contare le piume sulle ali di un uccello in volo. Ma era destinata a commettere un fatale errore di giudizio. Con grande sorpresa di Dharmman, iniziò a intrattenere regolarmente un nuovo arrivato in città, Khanazad Khan, di un fascino irresistibile, del cui passato nessuno sapeva nulla. Affabile, affascinante e sempre elegantemente vestita, Khanazad Khan di Patna era specializzata nel sedurre ricche tawaif che vivevano sole. Di solito erano tra le donne più ricche di qualsiasi città. Le loro case erano aperte a ogni genere di visitatori, il che rendeva l'accesso relativamente facile, e anche la polizia era meno propensa a perseguire con zelo un caso che coinvolgeva i tawaif rispetto a uno che coinvolgeva una vittima "rispettabile" e di classe superiore. Fingendosi un ricco commerciante viaggiatore, Khanazad Khan si guadagnava la fiducia di una cortigiana, con una stravagante ostentazione di ricchezza, sollecitudine e cortesia
Una volta conquistata la sua fiducia, le avvelenava il cibo o il drink e se ne andava con tutti i suoi gioielli e il suo denaro. Dopo diversi tentativi riusciti di sequestrare cortigiane in tutto il Bihar, e prima ancora nelle province del Nord-Ovest, Khanazad Khan raggiunse Arrah. Sempre scrupoloso nelle sue ricerche, si concentrò su Zahooran, una delle tawaif più benestanti della città, che viveva con una sola nipote nella casa più grande del quartiere tawaif di Arrah. Nei mesi successivi, la colmò di doni premurosi, complimenti esuberanti ma sinceri e un'eccitante attività amorosa. Quando fu certo della sua completa resa, la colpì una sera in cui Dharmman era assente per partecipare al matrimonio di un parente. Nel corso di una serata di musica e danza, Khanazad Khan preparò il drink di Zahooran con uno speciale veleno a lenta azione.

Addolorata per la perdita della zia che aveva amato come madre, era tormentata dal rimorso per i litigi che avevano rovinato i suoi ultimi giorni con Zahooran. Dharmman sapeva che sua zia aveva voluto solo il meglio per lei. Si incolpava della morte di Zahooran: se non avesse causato alla zia così tanto dolore, forse non avrebbe perso il buon senso per cui era così ammirata. I suoi amici e i suoi sostenitori cercarono di consolare Dharmman, ma con l'anima avvolta dall'angoscia, non riusciva a trovare conforto.
Babu la consolo e riscosse la sua fiducia dlopo di che che le diede una casa piu bella e grand e dove anda re a vicere lasciando la sua casa piena di lutto e brutti ricordi,
inizio a frequentare cosi rajput
Un corpetto aderente a maniche lunghe che si allargava in una gonna ampia che arrivava quasi alle caviglie, tradizionalmente realizzata in tessuto intrecciato con fili d'oro o d'argento e seta. Il suo peso e la sua importanza emblematica venivano spesso paragonati dai tawaif, quasi scherzosamente, all'armatura metallica indossata dai soldati d'élite dell'esercito Moghul. Indossare un pesante peshvaz e danzare con esso con la rapidità di un'aquila e la grazia di un cervo, come se fosse fatto di velo, richiedeva un duro addestramento e pratica.

Quella sera, Dharmman indossava uno splendido peshvaz verde, giallo e oro, abbinato a un pigiama di seta verde. Mentre si truccava i grandi occhi con il kohl, le sue due cameriere personali le acconciarono i folti e lucenti capelli in una lunga treccia, adornandoli con gajra appena realizzati di fiori profumati. Poi, applicarono delicati motivi di alta rosso ai piedi di Dharmman, mentre sceglieva gli ornamenti che completassero il suo abito. Gran parte dei suoi gioielli le erano stati donati da Kunwar Singh; il resto l'aveva ricevuto da ex amanti o acquistato con i propri guadagni. Con i capelli, la fronte, le orecchie, il naso, il collo, la vita, gli avambracci, i polsi, le dita, le caviglie e le dita dei piedi scintillanti di pietre preziose incastonate nell'oro, Dharmman ora si coprì la testa e le drappeggiò le spalle in una lunga sciarpa giallo oro, semi-diafana, tessuta con la seta più pregiata. Fece un ingresso smagliante nella sala delle udienze cerimoniali, dove si stava svolgendo il mehfil, e offrì i suoi saluti all'ospite inglese, che sembrava deliziato dalla sua presenza.

Dharmman Bibi iniziò la sua esibizione con la danza, come di consueto. Ogni volta che completava un cerchio, il visitatore le offriva del denaro, insistendo perché lo prendesse lei stessa. Poi cercava di afferrarle la mano. Dharmman ribolliva di rabbia in silenzio. Questo straniero, si comportava come se lei, la tawaif a capo di Shahabad, fosse un'umile nachaniya, una danzatrice di basso rango, o peggio, una povera prostituta che vendeva sesso ai soldati inglesi.

Le folle di donne, giovani e anziane, con i volti contratti e lo stomaco affamato, arrivavano infatti a rajipur ogni giorno dai villaggi in cerca di lavoro. Per lo più artigiane impoverite dall'arrivo di merci britanniche a basso costo sul mercato indiano, o mogli e figlie di famiglie contadine in miseria a causa degli alti tassi di reddito estorti loro dallo stato coloniale, molte di loro si dedicarono al commercio sessuale in città in rapida espansione come Calcutta.

Tutti sapevano che con le tawaif cortigiane delle lite bisognava comportarsi in modo rispeottoso per cui ci si chiese se questa condotta offensiva fosse un affronto al Raja.
Daharman represse la voglia di prendere a a schiaffi questo impudente straniero che le dava soldi.
Gli inglesi avevano sruttato questa prostituzione per il loro soldati fissando addirittura le tariffe delle donne e mandandole in ospedali per mslattie veneree a curarsi.
Kunwar Singh era in imbarazzo perche gli inglesi lo avrebbero aiutato a fare pressione sullo stato perche gli rimettesse il pesante debito ereditato dal padre che metteva a rischio il suo titolo e il suo regno.
Dhamran vide la rabbia nel volto di kunwar e lo vide stringere i pugni capendo la sua sotuazione e capendo anche che lei dipendeva da lui come eminente tawaif.cosi essendo abituata a perforMare in circostanze negative contInuó a ballare ignorando lo straniero col sorriso sulle labbra ma capi anche che lo straniero avrebbe voluto fare sesso quella stessa notte. La richiesta sarebbe stata per il suo raja intollerabile però.
La situazione era imbarazzantissima e senza uscita .
Un rifiuto avrebbe iondispettito lo straniero che serviva agli affari del raja.
Cosi cercando di far finire veleocemtne il balletto penso a una soluzione di compromesso
fece versare vino in abbondanza allo straniero incoraggiandolo a bere, in poco tempo fu sbronzo e dovette essere aiutato ad essere trasportato a letto dai servi.
Quando ando NEL CAMERINO a svestire il Peshaz chiese alla sua serva che era uguale in altezza e corporatura di andare lei in camera dello straniero fingendosi lei vestita come lei.
Il giorno dopo il.rozzo inglese che non s era accorto di nulla, tutto contento partí e salutó, e il raja fu sollevato dalla imbarazzo. Egli provò un rinnovato rispetto per la sua intelligenza, la sua intraprendenza e, soprattutto, per la sua lealtà nei suoi confronti e per il suo onore. In piedi sulla terrazza, mentre guardava l'inglese andarsene, Dharmman Bibi sentì solo una rabbia fredda e intensa salirle dal ventre e raggiungerle il cuore. Non avrebbe né dimenticato né perdonato il comportamento offensivo dello straniero
Daharman avrebbe voluto una figlia dal raja e avrebbe festeggiato con tutta la comunita il ringraziamento ma non pote averlo.
Una figlia avrebbe ereditato da lei la bellezza, la musica danza ecc.oltreche la capacita di tenere la casa, amministrare gli affari del kotha ecc. l'avrebbe aiutata in vecchiaia quando il raja non ci sarebbe stato piú ecc. Fece pellegrinaggi, visito templi per questo,
ma gli anni passarono ed entró nella mezza etá per cui
decise di adottare una bambina .
Questa era la norma nella comunita tawaif.

3.

La cucina dei Moghul, o Mughlai, è una tradizione culinaria che si è sviluppata nell'India settentrionale durante l'Impero Moghul, influenzata dalla cucina persiana e locale. Questa cucina è caratterizzata da piatti ricchi, salse elaborate, l'uso di spezie aromatiche, e l'adozione del forno tandoor per cucinare carne e pane. 
Caratteristiche principali:
• Influenze:
La cucina Mughlai è un mix di cucina persiana, introdotta dai Moghul, e sapori locali indiani. 
• Ingredienti:
Utilizza ampiamente carne, come montone e pollo, latte, panna, yogurt, frutta secca, frutta, e una varietà di spezie come zafferano, cardamomo, cannella e noce moscata. 
• Tecniche di cottura:
Il forno tandoor è un elemento chiave, usato per preparare kebab, piatti tandoori e pane come il naan. 
• Piatti tipici:
Tra i piatti più noti ci sono il biryani (un piatto di riso speziato), il rogan josh (un curry di agnello), il butter chicken, il korma (un piatto a base di carne o verdure in salsa cremosa) e vari tipi di kebab. 
• Salse:
Le salse sono un elemento distintivo, spesso a base di panna, pomodoro, yogurt e spezie. 
• Pane:
Il naan, il roti e il paratha sono i pani più comuni, spesso cotti nel tandoor. 
Esempi di piatti:
• Biryani: Un piatto di riso basmati cotto con carne, spezie e talvolta frutta secca. 
• Rogan josh: Un curry di agnello speziato, originario del Kashmir, con una salsa rossa brillante. 
• Butter Chicken: Un piatto a base di pollo in salsa cremosa e speziata al burro. 
• Kebab: Carne marinata e cotta nel tandoor, come il tikka kebab (pezzi di carne marinati) o il seekh kebab (carne macinata infilzata in spiedini). 
• Naan: Pane piatto non lievitato, cotto nel tandoor. 
• Paratha: Pane piatto simile al naan, ma spesso più spesso e leggermente fritto. 
In sintesi, la cucina dei Moghul offre un'esperienza culinaria ricca di aromi, sapori intensi e tradizioni che si sono evolute nel corso dei secoli, creando un ponte tra la cucina persiana e quella indiana.

....Influenze: La cucina Mughlai era un mix di cucina persiana, introdotta dai Moghul che erano.musulmani, e sapori locali indiani.  Ingredienti: Utilizza ampiamente carne, come montone e pollo, latte, panna, yogurt, frutta secca, frutta, e una varietà di spezie come zafferano, cardamomo, cannella e noce moscata.  Tecniche di cottura: Il forno tandoor è un elemento chiave, usato per preparare kebab, piatti tandoori e pane come il naan.  Piatti tipici: Tra i piatti più noti ci sono il biryani (un piatto di riso speziato), il rogan josh (un curry di agnello), il butter chicken, il korma (un piatto a base di carne o verdure in salsa cremosa) e vari tipi di kebab.  Salse: Le salse sono un elemento distintivo, spesso a base di panna, pomodoro, yogurt e spezie.  Pane: Il naan, il roti e il paratha sono i pani più comuni, spesso cotti nel tandoor.  Esempi di piatti: Biryani: Un piatto di riso basmati cotto con carne, spezie e talvolta frutta secca.  Rogan josh: Un curry di agnello speziato, originario del Kashmir, con una salsa rossa brillante.  Butter Chicken: Un piatto a base di pollo in salsa cremosa e speziata al burro.  Kebab: Carne marinata e cotta nel tandoor, come il tikka kebab (pezzi di carne marinati) o il seekh kebab (carne macinata infilzata in spiedini).  Naan: Pane piatto non lievitato, cotto nel tandoor.  Paratha: Pane piatto simile al naan, ma spesso più spesso e leggermente fritto. 

4.

Le Tawaif erano cortigiane colte e raffinate che facevano parte della società Moghul. Erano esperte di musica, danza ,in particolare il mujra, e letteratura in lingua Urdu. Servivano la nobiltà, contribuendo alla cultura di corte e diventando autorità in materia di galateo. 
Le tawaif erano intrattenitrici, ma anche custodi di tradizioni artistiche. Svolsero un ruolo significativo nella conservazione e diffusione delle forme tradizionali di danza e musica, soprattutto durante il declino dell'Impero Moghul nel 1700/ XVIII secolo. La loro influenza si estese alla letteratura e all'etichetta, e divennero figure centrali della cultura della corte Moghul nel nord dell'India, a partire dal 1500/ XVI secolo. 
Erano donne istruite, esperte in varie arti e letteratura, in particolare in lingua Urdu.
Servivano la nobiltà, contribuendo alla vita culturale della corte e influenzando l'etichetta.
Erano cantanti, ballerine e interpreti, soprattutto nel mujra, e svolgevano un ruolo importante nella trasmissione delle tradizioni artistiche.
Erano figure centrali nella cultura della corte Moghul, contribuendo alla sua ricchezza e raffinatezza, specialmente durante il periodo di declino dell'impero

La tawaif come si diceva era molto più di un’intrattenitrice: era una custode delle arti, una poetessa del gesto, una sapiente della parola e del silenzio. Nelle corti Mughal e nei salotti aristocratici dell’India precoloniale, la tawaif incarnava l’eleganza e la cultura.
La tawaif era spesso una donna colta, educata sin da giovanissima nelle arti più raffinate: danza classica (kathak), musica vocale (thumri, dadra, ghazal), poesia, recitazione, calligrafia, e perfino diplomazia e conversazione. Era una figura ambivalente: rispettata da principi e intellettuali, ma venne gradualmente marginalizzata con l’arrivo del colonialismo britannico e del condeguente rigido moralismo Vittoriano e ridotta a prostituta.
Gli inglesi non avevano capito niente né gli interessava capire che esisteva una filosofia,un estetica, un erotismo che non avevano nulla a che fare con i principi occidentali essendo prive del senso oscurantista del.peccato tipico  del cristianesimo protestante anglicano.
Il suo compito non era semplicemente “intrattenere”, ma creare bellezza.
Si esibiva nei mehfil — serate artistiche intime — dove i presenti si lasciavano incantare dalla danza, dalla musica e dai versi recitati. A volte, diventava anche consigliera politica o musa di poeti e scrittori.
Il suo abbigliamento era uno spettacolo in sé: gharara o sharara in seta grezza, ricamati a mano con specchi, perline o zardozi in filo d’oro. Il dupatta veniva drappeggiato con grazia, profumato con attar di rosa o gelsomino. Indossava gioielli in abbondanza: payal (cavigliere), jhumka (orecchini), kangan (bracciali), maang tikka sulla fronte. I suoi piedi erano tinti di henné e decorati con campanelli che suonavano con ogni passo.
Il repertorio musicale della tawaif era profondo e sensuale, non nel senso fisico, ma nell’anima.
Il ghazal era il suo regno: versi d’amore e desiderio, spesso tragico, cantati con voce struggente.
Le thumri erano delicate, emotive, raccontavano d’amore in modo giocoso o melanconico.
Le dadra erano più leggere, a volte folcloristiche.
Accompagnata da sarangi, tabla, tanpura, la sua voce galleggiava tra silenzi e note, tra attese e sospiri.
Spesso una tawaif non aveva bisogno di dire nulla: bastava un movimento della mano, un occhiata fugace, o un canto sussurrato in raag per far innamorare l’intera stanza.

Una tawaif portava con sé un’eleganza scolpita nel tempo, tra l’arte e il silenzio.
Fisicamente, aveva occhi profondi come inchiostro, sfumati di malinconia e curiosità. Il kajal ne accentuava l’intensità, rendendo ogni sguardo un verso non detto. Le sopracciglia erano arcuate con grazia quasi geometrica, le labbra piene e colorate con una leggera tinta di rosa alla rosa damascena. I suoi capelli, lunghi e spesso intrecciati con fili d’oro o piccoli fiori di champa, incorniciavano un volto simmetrico ma mai banale: c’era sempre una lieve irregolarità, come nei tappeti persiani più pregiati, un difetto voluto per farne un’opera viva.
La pelle era ambrata, vellutata, profumata di attar e farina di riso. Camminava con passo lieve, i piedi nudi tinti di mehndi e adornati da payal d’argento: ogni passo era una nota, ogni gesto una partitura.
Quanto agli abiti… Indossava un gharara di seta color giada antica, ricamato a mano con fili d’oro opaco e minuscoli specchi rotondi. Il pantalone ampio le si apriva come una calligrafia in movimento quando danzava. Il kurti era corto, bordato di perline e motivi floreali, lasciando intravedere i finissimi ornamenti al ventre. Il dupatta — lungo scialle trasparente — era leggero come fumo, bordato di gotta patti, e veniva fissato con grazia sopra la testa o lasciato cadere lungo un braccio come un invito non detto.
I gioielli erano un linguaggio:
un maang tikka con smeraldo che le cadeva sulla fronte,
orecchini jhumka che ondeggiavano come campane,
bracciali tintinnanti ad ogni gesto,
un anello a ogni mano, ognuno dedicato a un raga, a una stagione, a un’amarezza vissuta.
E quando saliva su una piccola pedana per iniziare il mujra, la luce si fermava su di lei, come se sapesse che lì, in quel momento, la bellezza era diventata reale

5.
PERSONAGGI

Noor e Aslam:
Paneer e Poesia" – Aslam è un nome maschile storico diffuso nell’India del Nord, e il paneer è un formaggio fresco molto usato nella cucina tradizionale.

"Noor e Imran:
Biryani d’Amore" –

Il biryani richiama sapori intensi e passione, perfetto per una storia in cui amore e cucina si intrecciano.

"Noor e Salim:
Tra Ghazal e Korma" 

– Salim ha un’aura regale, mentre il korma con le sue spezie delicate richiama una sensualità raffinata.

"Noor e Rafiq: Sapori di Sher e Shamiana" 

– Rafiq significa “compagno” e il termine “shamiana” evoca le tende delle feste, perfette per un’atmosfera poetica.
Nella regione dello Shekhawati nel Rajasthan, e sono considerate importanti siti storici e culturali la haveli aveva cinque cortili interni chowk, centro della vita familiare e da pozzi di luce e ventilazione con portici e le stanze disposte intorno al cortile. La sua facciata era decorata con affreschi che rappresentavano scene dei Veda induisti, ma anche scene di vita quotidiana e animali, pitture, intagli e incisioni. 
Ospitava una famiglia allargata, con spazi separati per uomini e donne, e offriva ombra e frescura

Le tawaif sono esistite da secoli nel subcontinente indiano e uno dei primi riferimenti alla professione è il personaggio Vasantasena del dramma sanscrito Mṛcchakatika del V secolo a.C.
Molte ragazze erano prese in giovane età e formate sia nelle arti dello spettacolo, come mujra, kathak e musica classica indostana, sia nella letteratura, nella poesia  ghazal, thumri e dadra, con standard elevati. La formazione delle giovani tawaif comprendeva anche la scrittura e l'enunciazione in urdu, nonché abilità sociali impiegate per coltivare i mecenati e trattenerli, in particolare la complessa etichetta associata al loro mestiere, in cui erano viste come esperte. Una volta che una tirocinante era maturata e possedeva una sufficiente padronanza della danza e del canto, diventava una tawaif, ballerina di alta classe al servizio di ricchi e nobili.
L'introduzione di una tawaif alla professione veniva segnata da una celebrazione, la cosiddetta cerimonia missī, che abitualmente prevedeva l'annerimento inaugurale dei denti.
Si ritiene inoltre che i giovani futuri nababbi venissero inviati dalle tawaif per imparare il tameez e il tehzeeb, che includevano la capacità di riconoscere e apprezzare la buona musica e la letteratura, forse anche praticarla, in particolare l'arte della scrittura ghazal. Divennero anche insegnanti per i figli di famiglie ricche ed élite, che spesso mandavano i loro figli nei kotha in modo che potessero imparare la lingua urdu, la poesia e l'etichetta dalle tawaif. Ai ragazzi veniva detto di sedersi e osservare come una tawaif si comporta nelle sue interazioni. Il contributo delle tawaif alla società proveniva da una tradizione familiare e godeva di una gerarchia. Al livello più alto delle tawaif era affidata la responsabilità di insegnare etichetta e buone maniere ai re e ai giovani principi. Inoltre avevano il compito di familiarizzare i giovani reali con le sfumature più sottili di poesia, musica, danza e letteratura, che nel XVIII secolo erano diventate l'elemento centrale della cultura educata e raffinata dell'India settentrionale.
Il kotha di una tawaif è uno spazio per spettacoli e un guardiano delle arti e della cultura, ed è aperto solo all'élite della città e ai ricchi mecenati. In questi spazi rarefatti, le tawaif componevano poesie, cantavano e ballavano con composizioni musicali dal vivo, oltre a esibirsi nei banchetti, il che richiedeva anni di rigorosa formazione. Le tawaif erano chiamate ad esibirsi anche nelle grandi occasioni come un matrimonio o la nascita di un erede maschio, solitamente cantando e mettendo in scena una storia mitologica o leggendaria. Le tawaif ballavano, cantavano, recitavano poesie e intrattenevano i loro corteggiatori nei mehfils.Il loro scopo principale era intrattenere professionalmente i loro ospiti, mentre il sesso era spesso incidentale e non era assicurato contrattualmente. Le tawaif di alta classe o più popolari potevano spesso scegliere tra i migliori dei loro corteggiatori. Le tawaif inoltre partecipavano alle celebrazioni nei templi durante le festività con esibizioni che erano state tramandate di generazione in generazione. Avevano anche la tradizione di esibirsi al bazar Burhwa Mangal nella primavera successiva al festival di Holi. Tali eventi fornivano loro un'occasione significativa, non solo di ricevere un patrocinio ma anche di mostrare le proprie abilità al pubblico generale, mantenendo così l'accettabilità sociale della loro professione.
I kotha, dove le tawaif spesso vivevano e si esibivano, ospitavano riunioni dell'intellighenzia locale, presiedute principalmente dalla tawaif più anziana. Godevano di influenza su scrittori, giornalisti e poeti. I poeti desideravano ardentemente che una tawaif cantasse le loro opere e chiedevano alle tawaif famose di cantare le loro poesie, in modo da garantire che la poesia venisse ricordata e tramandata di generazione in generazione.Una tawaif aveva un approccio non convenzionale alle relazioni, in cui ci si aspettava che le artiste rimanessero nubili ma potevano avere rapporti con i mecenati. Le tawaif tradizionalmente erano amanti fedeli di mecenati ricchi. Solo una volta terminata una relazione, a causa della morte del loro mecenate o della decisione reciproca di separarsi, una tawaif cercava di entrare in una nuova relazione.


6.


La storia di Noor e Salim


Prologo


Quando Noor Jahan era ancora un’allieva Tawaif (1) il mondo le appariva eccitante e gravido di promesse per il futuro.
La haveli di Churu era viva e sempre affollata di volti, suoni, profumi e racconti: i chiostri risuonavano dei passi leggeri, delle risate sommesse e dei pettegolezzi delle apprendiste dietro le jali traforate, mentre il profumo costante del pane all’anice e del hennè fresco sulle mani delle giovani danzatrici dominava su tutto.

Situata nella regione Shekhawati del Rajasthan, nel Nord ovest dell'India, la haveli dove viveva Noor aveva un cortile interno, vero centro della vita familiare, con portici e stanze disposte intorno al cortile con spazi separati per uomini, donne ed eunuchi. La sua facciata era decorata con affreschi che rappresentavano scene dei Veda induisti, ma anche con scene di vita quotidiana e animali, pitture, intagli e incisioni. Ospitava la famiglia allargata delle Tawaif dirette da Begum Sahira.
Noor, che aveva allora quattordici anni, le trecce lunghe e lucide come seta nera, imparò il linguaggio dei gesti e dei sapori ancor prima di quello delle parole.
La sua Ustani, Begum Sahira, sedeva su un cuscino viola scuro e insegnava con la voce bassa e il tamburo in grembo:
Ogni mano racconta un verso, ma una vera tawaif impara prima ad ascoltare la poesia dell’acqua che bolle.”
Fu nella cucina (2) infatti che Noor cominciò davvero ad apprendere l'antica arte. La sera, mentre le altre allieve dormivano, lei aiutava Amma Bibi a temperare il latte per il firni. Osservava la donna mescolare con lentezza rituale, cantilenando un ghazal antico:
Un momento e scivoli nel cuore come un profumo
come lo zafferano che si scioglie nel latte
silenzioso, ma penetrante.
In quelle notti Noor imparò anche il senso dell’attesa, il linguaggio delle spezie e il significato del ritmo, anche senza tamburi.
Quando il sole declinava e i minareti cominciavano a tingersi d’oro, Noor aiutava a preparare la cena. Non era solo un pasto: era una preghiera silenziosa, un rito. Gli venne insegnato che ogni piatto era un versetto e ogni fragranza un gesto d’amore in attesa di un destinatario.
Nel battito del cuore
vive il profumo dello zafferano
quella notte, quell’istante, l’incanto dei sogni.

1

Sotto la pioggia dei monsoni di giugno all'haveli giunse un giorno un giovane uomo di nome Salim. Era scalzo come chi entra in un tempio e aveva gli occhi di chi aveva letto troppo e sorriso troppo poco. Disse che non cercava piacere, ma rifugio e non volle dire da cosa.
Noor aveva appena finito di danzare.
Aveva ancora il kajal sbavato sugli occhi e i piedi impolverati dalla danza del mujra.
Lo guardò come fosse un presagio incerto, ma inevitabile.
Accolto da Amma Bibi con uno sharbat di karkadè freddo, Salim restò per ore seduto vicino alla porta, guardandosi intorno e osservando rapito la danza delle ombre che le tende gonfiate dal vento proiettavano sul pavimento e le pareti del chiostro. Poi d'un tratto si svegliò come da una transe e disse:
“È vero che qui si cucina la poesia ?”
Noor guardò Amma Bibi e scoppiò a ridere.
Amma allora chiamò a sè una serva e le sussurrò alcune parole all'orecchio. La serva allegramente complice volò in cucina, si affaccendò per un po' e poi con il dorso del cucchiaio fece tintinnare un bicchiere per segnalare che aveva finito. Uscì nel chiostro, si inchinò all'ospite e con un sorriso malizioso a occhi bassi gli porse una ciotola di rame. Fu così che Salim assaggiò il suo primo yakhni allo zafferano. Dopo che ebbe finito Noor si sedette a fianco a lui, si presentò e gli chiese:
"Sai quando un piatto è pronto?"
Lui scosse la testa.
“Quando si smette di parlare” gli rispose.

2

Nei mesi seguenti, Salim, apprezzato dalle Ustani della casa per i Ghazal che scriveva, venne definitivamente ospitato e assunto come poeta.
Dalla cucina Noor lo osservava che scriveva nel cortile interno, tra vasi di basilico e rose appassite: sedeva con le ginocchia piegate, il quaderno sulle cosce, e la penna ferma a mezz’aria, come se attendesse una nota per continuare.
La mattina, mentre le prime luci del sole baciavano le pareti di calce, Noor lo chiamò tra le tende leggere della cucina e gli chiese:
“Hai mai arrostito il masoor con le mani?”
“No”
“Allora vuol dire non hai mai scritto davvero un ghazal.”
Lui restò di sasso, ma obbedì.
Insieme, tostarono le lenticchie rosse, mentre il burro sfrigolava. Noor aggiunse aglio pestato con zenzero fresco, e gli spiegò:
“Ogni strofa deve avere un’esplosione. Questo, è l’aglio. Poi un pizzico di fieno greco. E questa è la nostalgia.”
Lui la guardava, incantato.
“E tu, in che spezia ti nascondi?”le chiese Salim.
Lei sorrise senza rispondere e versò acqua calda nella pentola.
Quando fu prontò tutte le tawaif si sedettero su grandi cuscini e pranzarono insieme a Salim, Noor, alle Amma e alle Ustani sul dastarkhwan steso sul pavimento.
Il dhal era denso e vellutato, il naan fragrante. Ma fu la lentezza del pasto a stregar più di tutto Salim: quell’attesa tra un boccone e l’altro, colma di occhi bassi e sorrisi sospesi.

La sera stessa ci fu l'esordio del primo recital di Ghazal di Salim.
Salim non aveva il fascino scolpito dei poemi epici, ma un’irregolarità magnetica, come un verso fuori metrica che però non si poteva fare a meno di rileggere. Aveva occhi scuri, infossati, con cerchi tenui sotto le ciglia, come se portasse sulle palpebre notti insonni passate tra libri e rimpianti. Lo sguardo era assorto, sembrava sempre rivolto a qualcosa che stava per accadere o che era appena sfuggito. La sua pelle era color ambra scurita dal sole, i lineamenti marcati ma non duri — c’era dolcezza nella bocca, come se avesse sorriso poco, ma con sincerità. Una ciocca ribelle gli ricadeva sempre sulla fronte, sfiorata con le dita quando pensava o taceva troppo a lungo. Era alto, ma con la postura leggermente curva, non di vergogna, ma di ascolto.
Nei suoi abiti c’era una semplicità curata. Indossava un kurta di lino grezzo color sabbia, con il colletto stropicciato e i bottoni lasciati aperti fino al petto, dove un medaglione antico pendeva da un filo di cuoio. Il pyjama era largo, bianco panna, spesso impolverato ai bordi da camminate tra i vicoli. Ai piedi, sandali in cuoio o, più spesso, niente. Non amava ornarsi, tranne forse per un anello d’argento al mignolo, inciso all’interno con un verso che nessuno era mai riuscito a leggere.
Quando recitò i suoi ghazal, si avvolse in uno scialle lungo color indaco, sfilacciato alle estremità, che portava sulla spalla sinistra. Quel semplice gesto bastò a dare alla sua presenza una solennità poetica. Il suo fascino non era immediato ma di una lentezza magnetica, come il profumo del legno di sandalo che si insinua solo dopo qualche respiro.


3

Una Tawaif era una custode delle arti, una poetessa del gesto, una sapiente della parola e del silenzio. Nella corte Moghul e nei salotti aristocratici incarnava l’eleganza e la cultura. Era una giovane donna già colta, educata sin da piccola nelle arti più raffinate, la danza classica kathak, il canto thumri, dadra, la poesia ghazal, la recitazione, la calligrafia, e perfino la diplomazia e la conversazione. Era rispettata da principi e intellettuali. Il suo compito non era semplicemente “intrattenere”, ma creare bellezza. Si esibiva con le altre Tawaif dell'haveli in serate artistiche intime, mehfil, dove gli invitati si lasciavano incantare dalla danza, dalla musica e dai versi recitati.
Il repertorio musicale di Noor era profondo e sensuale. Il ghazal era il suo regno: versi d’amore e desiderio, spesso tragico, cantati con voce struggente. Le thumri erano delicate, emotive, raccontavano d’amore in modo giocoso o melanconico. Le dadra erano più leggere, a volte folcloristiche. Accompagnata da sarangi, tabla, tanpura, la sua voce galleggiava tra silenzi e note, tra attese e sospiri. Spesso non aveva bisogno di dire nulla: bastava un movimento della mano, un occhiata fugace, o un canto sussurrato in raga per far innamorare l’intera stanza.
Noor portava con sé un’eleganza scolpita nel tempo, tra l’arte e il silenzio. Fisicamente, aveva occhi profondi come inchiostro, sfumati di malinconia e curiosità. Il kajal ne accentuava l’intensità, rendendo ogni sguardo un verso non detto. Le sopracciglia erano arcuate con grazia quasi geometrica, le labbra piene e colorate con una leggera tinta di rosa damascena. I suoi capelli, lunghi e spesso intrecciati con fili d’oro o piccoli fiori di champa, incorniciavano un volto simmetrico ma mai banale: c’era sempre una lieve irregolarità, come nei tappeti persiani più pregiati, un difetto voluto per farne un’opera viva. La pelle era ambrata, vellutata, profumata di attar e farina di riso. Camminava con passo lieve, i piedi nudi tinti di hennè e adornati da payal d’argento: ogni passo era una nota, ogni gesto una partitura.
Indossava un gharara di seta color giada antica, ricamato a mano con fili d’oro opaco e minuscoli specchi rotondi. Il pantalone ampio le si apriva come una calligrafia in movimento quando danzava. Il kurti era corto, bordato di perline e motivi floreali, lasciando intravedere i finissimi ornamenti al ventre. Il dupatta, lungo scialle trasparente, era leggero come fumo, bordato di gotta patti,profumato con attar di rosa o gelsomino, veniva fissato con grazia sopra la testa o lasciato cadere lungo un braccio come un invito non detto. I gioielli erano un altro linguaggio: un maang tikka con smeraldo che le cadeva sulla fronte, orecchini jhumka che ondeggiavano come campane, kangan bracciali tintinnanti ad ogni gesto, un anello a ogni mano, ognuno dedicato a un raga, a una stagione, a un’amarezza vissuta. I suoi piedi erano tinti di henné e decorati con campanelli che suonavano con ogni passo.
La casa era immersa in un silenzio sospeso, come se trattenesse il fiato. Dal chiostro arrivavano solo sussurri e lo strusciare delle vesti: il pubblico iniziava a prendere posto tra tappeti stesi e lampade a olio.
Nel boudoir, Noor sedeva immobile su uno sgabello basso, con la schiena dritta e gli occhi socchiusi. Due ragazze le intrecciavano i capelli con fiori di champa, infilando minuscole spille d’oro tra le ciocche. Il profumo dei fiori si mischiava a quello dell’attar di mogra che una terza servitrice le tamponava dietro le orecchie e all’incavo del polso. Un vassoio d’ottone le fu portato davanti: sopra, una tazza di acqua calda con miele e cardamomo. Noor la prese a due mani, assaporando un sorso lento. Poi inspirò profondamente. La voce si riscaldava così.
Sotto le sue vesti color rame, il cuore batteva un taal discreto. Poi, un attimo prima che il tamburo chiamasse l’inizio, Noor posò una mano sul petto, chiuse gli occhi e sussurrò fra sè :
"Quando le parole tacciono
allora è il corpo a parlare."
Salim era lì, tra il pubblico. Ma non guardava come gli altri. Scriveva. Con uno sguardo che non consumava, ma raccoglieva: ogni gesto, ogni pausa, ogni vibrazione del suo dupatta nell’aria.
Noor cominciò a danzare su una thumri antica, con passi leggeri come battiti d’ali. Le sue mani raccontarono la storia di un amore lontano, le dita sfiorarono l’assenza come si soffia il vapore sopra il chai.
Salim scrisse senza guardare il foglio. Le parole gli uscivano come lacrime trattenute troppo a lungo.
Il tempo si è fatto lento
nel tuo giro.
Il tuo profumo
ha trasformato
la mia penna in arcobaleno.
A un tratto, gli occhi di Noor lo cercarono. E si trovarono. Lei lo vide. E danzò con uno scarto: un passo in più. Una pausa più lunga. Come se danzasse per lui, con lui.
Quando la mehfil della sera finì nell’aria della haveli galleggiavano ancora frammenti di tabla e versi sospesi, come incenso che non vuole morire. Il pubblico se n’era andato piano, lasciando tappeti stropicciati, bicchieri vuoti, e un silenzio denso, quasi rispettoso.
Noor cercò Salim ma non lo trovò.
In cucina, la fiamma bassa scaldava un curry di lenticchie rosse, infuso di cumino e foglie di curry fritte nel ghee. Il pane era stato impastato fresco, cotto poco prima sulla tawa ancora caldo, con le bolle croccanti.
Nell’ultima stanza a sinistra del cortile, Noor ancora avvolta nel suo dupatta stropicciato e profumato di danza si era sciolta i capelli. Le mani erano ancora profumate di rosa e sudore. Tolse un bracciale, poi l’altro. Si versò da sola un bicchiere d’acqua con semi di finocchio e si sedette. Poi su un cuscino vide un foglio piegato.
Lo aprì con attenzione, come si apre una scatola fragile. Le parole erano scritte in inchiostro nero, inclinate verso destra, come se spingessero per uscire dalla pagina. Era un ghazal.
Nella tua danza
hai trattenuto il mio tempo spezzato
nel tuo respiro
dimora il mio pensiero perduto
Lo lesse lentamente. Una volta. Poi un’altra, più piano.
Spezzò un pezzo di naan, lo intinse nel curry fumante. con una lentezza sacra. Mentre masticava, senza fretta, chiuse gli occhi pensando al ghazal e le sembrò di sentirlo sul suo palato. Una goccia di ghee le scivolò sul polso, calda e lucida. La commosse il fatto che finalmente qualcuno avesse capito che anche cucinare era una forma di poesia. E danzare una forma di preghiera.


4

Nella quiete del mattino dopo, la cucina sembrava un santuario di suoni leggeri: il tintinnio delle spezie nei barattoli di ottone, il fruscio del naan che lievita, il borbottare del tè sulla stufa.
Noor portava i capelli ancora sciolti, le dita lievemente ingiallite dal curcuma del giorno prima.
Davanti a sé dispose il Latte intero, caldo ma non bollente, lo Zafferano, lasciato in infusione in una ciotolina bianca, il Riso basmati, lavato finché l'acqua non fosse limpida come un pensiero chiarito. Una manciata di pistacchi tritati non troppo fini. E zucchero, quanto bastava a dare dolcezza. Prese una casseruola e cominciò a mescolare. Il riso assorbiva il latte lentamente. Lo zafferano si sciolse, tingendo tutto di un giallo lunare. L’aroma salì, sottile e vellutato, come certe emozioni che arrivano senza bussare. Quando il kheer fu pronto, lo versò in due ciotole. Una, la lasciò fumare sul bancone. L’altra, la sua la portò con sé sulla terrazza, all’aria del mattino. Spezzò il primo boccone di naan, lo intinse piano nel riso dolce e cremoso, e pensò:
Quello che non ha detto oggi
è stato cucinato.
Lascialo aspettare
finché non sarà lui
a cucinare per lei.


5

Nei giorni successivi, Salim passò spesso davanti alla cucina, fingendo disinteresse mentre il profumo del cardamomo e del burro chiarificato lo colpiva come una poesia .
Noor non lo chiamava, non lo guardava nemmeno. Ma lasciava la porta socchiusa.
Lui cominciò ad annotare le emozioni delle spezie nei suoi quaderni: “amchoor = attesa acerba”, “cannella = desiderio trattenuto”, “anice = promessa dolceamara”.
Si rese conto però che le parole non bastavano più: doveva rispondere con il fuoco e con le mani.
Cosicchè un pomeriggio si presentò in cucina.
Noor era uscita.
Le servitrici lo guardarono stupite, poi capirono. Una di loro gli porse un grembiule.
Non disse nulla, ma lo legò attorno a lui come un rito.
Scelse di fare il sheer khurma, un dolce dell’Eid, anche se non era festa. Mise in ammollo datteri e uvetta in acqua di rosa. Tostò i vermicelli nel ghee finché non divennero dorati. Aggiunse lattezucchero lentamente, come si versa fiducia in una storia che si vuole ancora scrivere. Poi arrivò lo zafferano. Aprì la bustina e inspirò.
Quando Noor tornò, lo trovò lì, nel cuore della cucina, con il cucchiaio in mano.
Non disse niente. Lui le porse una ciotola. Calda. Densa. Fragile come la sua voce quando disse:
“Oggi non ho un ghazal. Ho questo.”
Noor prese un cucchiaino. Assaggiò. E chiuse gli occhi.
Nessuno parlò. Non c’era bisogno.
Perché anche l’amore si serve caldo e si ascolta col palato.
La mattina dopo, la luce filtrava tra le tende leggere. Noor aprì il suo diario rilegato in pelle scura. Sfogliò lentamente, fino a una pagina vuota, tranne che per un piccolo fiore di basilico secco incollato nell’angolo. Prese la penna e, senza pensarci troppo, scrisse con una grafia obliqua :
"Ieri qualcuno
ha cucinato per me
senza chiedere nulla in cambio.
Non ha misurato spezie:
ha misurato silenzi.
E mi ha servito non un piatto,
ma una possibilità.
Ora so:
anche un uomo può preparare un ghazal a fuoco lento."
Sotto, più piccolo, aggiunse:
A volte le parole non cuociono , il sapore si sente solo con gli occhi.
Poi chiuse il diario e lo lasciò accanto a una ciotola d’argilla vuota, dove prima c’era lo sheer khurma.

6
Il giorno dopo Noor decise di preparare il Biriyani, non quello delle feste: quello delle sere intime.
Accese il fuoco appena prima del tramonto. Lavò il riso basmati tre volte, con lentezza. Scelse i semi di cumino uno a uno, come se ognuno fosse un verso antico. Nella padella mise burro chiarificato, chiodi di garofano, un bastoncino di cannella spezzato tra le dita, poi cipolla tagliata sottile. Aggiunse patate fritte, un po’ di yogurt montato a mano, coriandolo tritato fine, zafferano sciolto nel latte tiepido e versato a spirale, come il tempo che gira su se stesso quando si aspetta qualcuno. Quando i profumi si fecero profondi, sigillò la casseruola col pane.
Salim arrivò, varcando la cucina in silenzio.
Lei non parlò ma gli porse il piatto.
Si sedettero a terra, come nelle prime sere senza parlare. Ogni boccone era già una sillaba, ogni sorriso trattenuto una strofa incompiuta. Poi si spense la lampada, e tutto ciò che restò fu il profumo del biriyani. E il rumore lieve di due cucchiaini.

7
Alcuni giorni dopo Noor era seduta su un gradino in cucina, le ginocchia raccolte al petto, mentre tra le mani sfogliava una vecchia raccolta di ghazal. La luce cadeva sulle parole in urdu come rugiada su petali antichi. Dietro di lei, i fornelli tacevano.
Fu Salim a spezzare il silenzio.
Entrò portando un piccolo sacchetto di juta. Lo aprì. Dentro c’erano limoni verdi, foglie di menta, uno zenzero ancora con la terra addosso.
“Oggi posso avere il permesso di cucinare io?” chiese .
Noor fece un cenno di fiducia.
Salim allora iniziò a preparare un chutney. Tritava con lentezza, mescolando senza leggere nessun appunto: una parte asprezza, due parti desiderio, un soffio di chili per tutto ciò che non aveva osato dire. Noor osservava, in silenzio. Lo vedeva cercare il punto esatto di ogni sapore. Quando finì, versò il chutney in una piccola ciotola di terracotta e la posò davanti a lei.
“Non è perfetto,” disse. “Ma somiglia a me quando penso a te.”
Noor lo guardò. Poi intinse un dito, assaggiò appena. Chiuse gli occhi e disse :
Alcuni sapori non si assaggiano con la lingua, ma col cuore.

8
Le mani erano il primo capitolo di una Tawaif.
Dall’interno dei polsi fino alle punte delle dita, l’henné disegnava vortici di paisley, fiori aperti e versi in miniatura nascosti tra i rami. Ogni dito sembrava una strofa, ogni palmo una pagina di un diario privato. Sul centro della mano destra, un piccolo disegno ritraeva un paio di occhi socchiusi, forse i suoi, forse no. Le braccia salivano fino ai gomiti, ornate da arabeschi sottilissimi che imitavano la filigrana dei gioielli, ma fatti solo di pigmento e pazienza. Intorno all’avambraccio sinistro, una linea più scura formava un bracciale di parole: non lettere visibili, ma segni curvi che sembravano pensieri sussurrati a bassa voce. I piedi, tinti fino alle caviglie, portavano storie differenti: sotto il tallone destro, una luna calante; sul dorso del piede sinistro, un piccolo fiore di champa, lo stesso che portava tra i capelli. Le dita dei piedi, decorate con spirali e punteggiature, tintinnavano lievemente per via delle payal, le cavigliere d’argento, che rispondevano ad ogni passo con un suono leggero.
La tinta dell’henné era scura, profonda, a dimostrazione che era stata applicata con amore o, come diceva Amma Bibi, “più il cuore batte per qualcuno, più l’henné si fissa nel sangue.”
E quando danzava, i disegni prendevano vita: il fiore si apriva con le dita, la luna tremava sul tallone, i versi sembravano completarsi.
La sala era silenziosa quella sera. L’aria vibrava come pelle sfiorata da un sussurro. I cuscini di velluto erano vuoti, la luce tremolava sulle pareti color ambra, e al centro, Noor faceva le prove. Scalza, con i piedi decorati di henné come mappa segreta di un mondo antico, salì sulla pedana. Le payal alle caviglie tintinnarono, ma piano , come monete offerte al silenzio. Alzò le mani. Le palme, ornate di spirali e fiori, si aprivano verso il cielo. Le dita raccontavano: l’inizio dell’attesa, l’incontro, la bruciatura della separazione.
Ogni gesto portava con sé un frammento di memoria, e ogni movimento faceva risuonare l’henné come scrittura viva. Sul dorso delle mani, i disegni si intrecciavano alla luce: sembravano petali che si muovevano a tempo con il cuore, o versi antichi che danzavano da soli. Le braccia si sollevavano come onde, portando con sé il sapore del curry speziato, della malinconia morbida, dei giorni in cui si ama con timidezza. Quando girava su se stessa, la luna disegnata sul tallone destro tremolava con grazia, come se avesse sentito un nome sussurrato nella notte. Il fiore sul piede sinistro sembrava sbocciare ad ogni passo. I polsi si piegavano, e con loro, i disegni sembravano scrivere nell’aria lettere in una lingua che solo chi amava poteva comprendere.
Al termine, Noor si fermò.
Le mani aperte, il respiro lento. Il sudore si mescolava all’attar sulla pelle, e l’henné ormai leggermente sbavato, sembrava ancora più vero. Non decorazione, ma traccia.
Poi abbassò le mani. E nel silenzio, anche il suo corpo tacque.

9
La Mehfit di quella sera iniziò con un raga del tramonto, il Raga Yaman, suonato sulla sarangi o sul sitar. Le note fluivano come acqua profumata che scivola sul marmo, e aprivano lo spazio interiore dove poi Noor danzava.
Yaman era scelto non solo per la sua bellezza, ma perché evocava shringar rasa, desiderio, amore che si prepara, contemplazione amorosa prima che il corpo parli col suo linguaggio.
Quando lei prese posizione per il mujra, gli strumentisti, maestri silenziosi, intonarono il thumri in lingua Braj e Awadhi.
"Mio padre,
la mia casa natale
si allontana da me"
Era una thumri resa celebre da Wajid Ali Shah, re, ma anche compositore e mecenate della cultura tawaif.
Noor la danzava con gesti teneri e malinconici, le mani che si separano come chi parte, il volto che sorride mentre le lacrime si raccolgono alle ciglia.
Tra i pezzi più struggenti poi vi furono esecuzioni vocali di ghazal di poeti urdu come Mirza Ghalib, Faiz Ahmad Faiz e Jigar Moradabadi.
I musicisti usavano la tabla non solo per il ritmo, ma come controcanto emotivo: ogni tihai, frase ripetuta tre volte che chiudeva la sezione, si davano un colpo al petto, come fosse una pausa, una parola non detta.
Poi passarono ai dadra, composizioni più leggere, con testo affettuoso o malizioso, suonate in cicli ritmici di sei battute. Noor li usava per far sorridere il pubblico e Salim prendeva appunti di nascosto, ogni volta che una frase sembrava alludere a qualcosa tra loro due.
Alla fine quando la notte si fece intima, restò solo il tanpura, che vibrava come un respiro lungo. Noor smise di danzare e si mise a camminare lenta tra il pubblico quasi addormentato, recitando a bassa voce :
Né strumento né melodia: solo un raga di silenzio.
In quei momenti, nessuno osi interrompere.
Nemmeno la notte.
Non fu un maestro a insegnarmi questa arte.
Fu il palato.
Quando era ancora un’allieva, Noor aveva imparato i raga non seduta davanti al tanpura, ma in cucina, accanto ad Amma Bibi. Ogni pomeriggio, mentre le altre bambine battevano le mani sul ritmo, lei pestava semi di coriandolo e ascoltava la vecchia donna cantilenare sottovoce.
“Il Raga Bhairavi,” diceva Amma, “sa di acqua di rose versata troppo tardi: dolce, ma con l’amaro dell’addio.”
Noor chiudeva gli occhi e assaggiava il Firni appena tolto dal fuoco. Lo zucchero le si fermava sul retro della lingua, mentre l’aroma del cardamomo le saliva al naso.
Poi ascoltava: il raga Bhairavi arrivava come una nostalgia, come latte versato su lettere mai spedite.
Un giorno chiese:
“E il Raga Malkauns?”
Amma le porse un cucchiaino di chutney di tamarindo scuro e disse :
“Questo”
La bocca di Noor si strinse. Era acido, misterioso, ricco come un amore maturo e pieno di ombre.
Poi, con gli anni, cominciò a riconoscerli tutti:
Il Raga Desh, come una lassi fredda al sale, bevuta in una sera d’estate: gioioso, ma asciutto. Il Raga Todi , come fieno greco nel burro fuso: amaro, denso, profondamente intimo. Il Raga Yaman, lo imparò gustando un cucchiaio di latte allo zafferano che sapeva di attesa paziente.
Così, mentre i suoi compagni memorizzavano scale e sequenze, Noor imparò a sentire la musica sulla lingua, non solo nelle orecchie. Per questo, anni dopo, per lei nessun raga fu mai solo suono ma un sapore che si scioglieva nel gesto.

10

Era una notte che profumava di vetiver e vento caldo, con i lampioni ad olio che tremolavano come palpebre stanche.
Nella haveli, la mehfil era pronta, ma diversa dalle altre: quella sera non danzava Noor, né cantava una tawaif. C'era silenzio, attesa.
E il tappeto al centro della sala era vuoto.
Poi entrò Salim da solo e vi si sedette.
Indossava il suo kurta semplice, lo scialle indaco stinto e lo sguardo umile.
Nelle sue mani c’era un taccuino. Lo aprì e senza nessuna introduzione e nessun saluto, recitò il primpo Ghazal a occhi bassi:
Il tuo silenzio
fu l’inizio della mia lingua.
Anche senza il tuo tocco
il mio amore fu completo.
Gli occhi del pubblico si sciolsero piano nella penombra.
Noor, seduta tra le tende leggere, lo osservava. Non portava trucco, né kajal, né payal alle caviglie. Solo un’ombra di sorriso sulle labbra nude.
Seguirono tanti altri ghazal su un sottofondo di tanpura.
Quando il recital giunse alla fine , Salim si fermò, chiuse il quaderno e guardando Noor, fra il pubblico, negli occhi a lungo, disse :
Tutti pensano
che il poeta reciti per essere amato.
Io no. Io recito perché tu abbia uno specchio
dove vedere ciò che sei diventata per me.”
Allora Noor si alzò, a piedi nudi camminò sul tappeto, lentamente, il passo segnato solo dal suono lontano del tanpura. Si inginocchiò accanto a lui e disse:
"Oggi sei il mio raga silenzioso
quello che suona nel cuore
senza note, per sempre".

11

Nella penombra dorata della cucina, Noor si muoveva quella sera con la lentezza rituale che somiglia alla concentrazione dei musicisti prima del primo raga.

Quella sera era diversa: non cucinava per nutrire, ma per svegliare il desiderio.

Accese una candela profumata al legno di sandalo, e tirò fuori una scatola intagliata che custodiva gli ingredienti segreti tramandati dalle tawaif più antiche, come un grimorio sensuale nascosto tra i barattoli.
Cominciò con le mandorle, ammollate per ore, poi pestate nel mortaio insieme a pistacchi e semi di papavero bianco per scaldare il sangue, come diceva Amma Bibi, e rendere docile la mente ai desideri.
Fece poi scaldare il latte intero con fili di zafferano, miele di fiori selvatici e un pizzico di noce moscata. Lo mescolava piano, con un cucchiaio di legno. Aggiunse qualche goccia d’olio essenziale di rosa damascena, usato una volta dalle regine di Awadh prima degli incontri più attesi. Il profumo si diffuse lento, penetrante, come una poesia che sa già a chi è destinata. Mise da parte il latte speziato, e iniziò a preparare il curry di gamberi al latte di cocco, con semi di fieno greco e pasta di tamarindo. Una combinazione misteriosa dolce, ma affilata, come lo sguardo di chi non parla ma vuole essere ascoltata. Nel piatto finale, versò anche una salsa a base di datteri, semi di coriandolo e polvere di petali di rosa essiccati. Uno sciroppo lento, rosso ambrato, che tremolava nel cucchiaio come un desiderio che ancora non osa.
Quando Salim arrivò, vide le ciotole ornate di foglie d’argento con i cibi caldi ma non bollenti, come i sogni che si vogliono ricordare.
Noor non disse nulla. Gli porse il piatto con un gesto del polso, e uno sguardo appena inclinato. E sulla tovaglietta, una frase scritta con un rametto di zafferano:
A volte
per svegliare il corpo
bisogna prima accendere il cuore.
Noor aveva imparato quelle ricette proibite come si imparano i segreti di un corpo: ascoltando.lo. Fu Amma Bibi, la vecchia cuoca della haveli, a piantarle i primi semi, non con spiegazioni, ma con sguardi, silenzi e gesti millimetrici. Ma fu solo entrando nella dispensa nascosta dietro il cortile delle magnolie, che Noor scoprì la vera alchimia. Lì, dentro barattoli opachi e vasi etichettati solo in calligrafia urdu ormai svanita, c’erano polveri e resine, miele nero e noci immersi nel brandy, semi dimenticati e rose essiccate all’ombra.
Ogni ingrediente aveva un’origine segreta: qualche tawaif l’aveva portato da Lucknow, un’altra da Bukhara, un’altra ancora da una notte d’amore mai raccontata.
E non era solo la materia a renderle proibite.
Era il modo in cui si cucinavano. Con intenzione. Con occhi bassi ma anima accesa. Con una lentezza che faceva arrossire.
Una delle prime ricette erotiche segrete che Noor apprese fu il murgh musallam con chiodi di garofano messi a mollo nel latte di cocco e succo di melograno. La preparava solo quando sentiva che l’amore non bastava più a parole.
Un’altra ricetta che le fu svelata, solo una volta, da una tawaif ormai cieca, era una zuppa dolce-salata con semi di nigella, pepe lungo, e pistacchi pestati. La donna le disse:
Non dare mai questo piatto a chi vuoi conquistare. Solo a chi temi di perdere.”
E Noor ascoltò e imparò che certe ricette non sono afrodisiache solo perché accendono il desiderio, ma anche perché accendono la memoria del desiderio. E quella, non svanisce mai.


12

La stanza era ancora tiepida di spezie. La tavola sparecchiata, tranne che per due ciotole vuote e il profumo persistente di rosa e pepe lungo. Noor non parlava. Salim nemmeno. Ma il silenzio che si stendeva tra loro non era vuoto , era come l’impasto del naan: elastico, vivo, pieno di possibilità.
Lui le sfiorò il polso, appena. E bastò: perché Noor, che aveva danzato mille volte per occhi estranei, sentì il proprio corpo risponderle da dentro, senza musica, senza pubblico.
Ogni passo verso la stanza accanto fu una cadenza.
Ogni respiro, un tihai non battuto ma sentito nelle ossa.
Camminava davanti a lui, eppure non c’era distanza. Lui vedeva i suoi piedi nudi, ancora decorati d’henné, lasciare lievi impronte sulla pietra come ideogrammi effimeri.
E sentiva, nel proprio petto, il ritmo del thumri che lei non stava danzando, ma diventando.
Quando Noor si voltò i suoi occhi bruciavano come zafferano sciolto nel burro caldo.
Lui alzò una mano per colmare lo spazio fra loro che non si poteva più misurare in metri, ma in sospiri e versi sospesi.
Lei lo prese per le dita. Lentamente.
E si mossero insieme.
Non fu un abbraccio ma un mudra a due.
Un gesto raccontato con pelle, polsi, seni, labbra che disegnavano ombre sulle tende.
Ogni contatto fu come assaggiare qualcosa di proibito ma profondamente familiare.
Non c’era fame da colmare. Fu una coreografia della pelle, cucinata come i loro piatti: con attesa, con sguardi, con improvvisi scoppi di sapore nascosti nella dolcezza.
Quando si fermarono, quando il tempo si fermò per loro, Noor appoggiò la testa sul suo petto e disse:
Abbiamo danzato anche senza danzare
Il desiderio può essere un incendio
o un lume acceso in cucina,
molto dopo mezzanotte
che non brucia ma scalda".
Salim rispose:
"Come un profumo, quel momento è rimasto in me
silenzioso, ma mescolato al vento del cuore,
dentro me
non resta promessa
né più incontro da sognare
eppure quel sapore si sveglia ad ogni tua parola, dentro me
tu cucinasti solo una colazione silenziosa
ma ogni boccone sembrava un verso sacro,
dentro me
Ora anch’io penso al profumo, più che al cibo
quello scivolato dalle sue dita, un tempo,
dentro me".
Da quel giorno, bastò solo accendere il fuoco insieme e la poesia tornò da sola frammista al profumo del riso.
                 FINE

Note
1. Le Tawaif sono esistite da secoli nel subcontinente indiano: il personaggio Vasantasena del dramma sanscrito Mṛcchakatika del V secolo a.C. era una Tawaif.
Molte ragazze erano prese in giovane età e formate sia nelle arti dello spettacolo, come mujra, kathak e musica classica indostana, sia nella letteratura, nella poesia ghazal, thumri e dadra, con standard elevati. La formazione delle giovani tawaif comprendeva anche la scrittura e l'enunciazione in urdu, nonché abilità sociali impiegate per coltivare i mecenati e trattenerli, in particolare la complessa etichetta associata al loro mestiere, in cui erano viste come esperte. Una volta che una tirocinante era maturata e possedeva una sufficiente padronanza della danza e del canto, diventava una tawaif, ballerina di alta classe al servizio di ricchi e nobili.
L'introduzione di una tawaif alla professione veniva segnata da una celebrazione, la cosiddetta cerimonia missī, che abitualmente prevedeva l'annerimento inaugurale dei denti.
Si ritiene inoltre che i giovani futuri nababbi venissero inviati dalle tawaif per imparare il tameez e il tehzeeb, che includevano la capacità di riconoscere e apprezzare la buona musica e la letteratura, anche praticarla, in particolare l'arte della scrittura ghazal. Divennero anche insegnanti per i figli di famiglie ricche ed élite, che spesso mandavano i loro figli nei kotha in modo che potessero imparare la lingua urdu, la poesia e l'etichetta dalle tawaif. Ai ragazzi veniva detto di sedersi e osservare come una tawaif si comporta nelle sue interazioni. Il contributo delle tawaif alla società proveniva da una tradizione familiare e godeva di una gerarchia. Al livello più alto delle tawaif era affidata la responsabilità di insegnare etichetta e buone maniere ai re e ai giovani principi. Inoltre avevano il compito di familiarizzare i giovani reali con le sfumature più sottili di poesia, musica, danza e letteratura, che nel XVIII secolo erano diventate l'elemento centrale della cultura educata e raffinata dell'India settentrionale.
Il kotha di una tawaif è uno spazio per spettacoli e un guardiano delle arti e della cultura, ed è aperto solo all'élite della città e ai ricchi mecenati. In questi spazi rarefatti, le tawaif componevano poesie, cantavano e ballavano con composizioni musicali dal vivo, oltre a esibirsi nei banchetti, il che richiedeva anni di rigorosa formazione. Le tawaif erano chiamate ad esibirsi anche nelle grandi occasioni come un matrimonio o la nascita di un erede maschio, solitamente cantando e mettendo in scena una storia mitologica o leggendaria. Le tawaif ballavano, cantavano, recitavano poesie e intrattenevano i loro corteggiatori nei mehfils.Il loro scopo principale era intrattenere professionalmente i loro ospiti, mentre il sesso era spesso incidentale e non era assicurato contrattualmente. Le tawaif di alta classe o più popolari potevano spesso scegliere tra i migliori dei loro corteggiatori. Le tawaif inoltre partecipavano alle celebrazioni nei templi durante le festività con esibizioni che erano state tramandate di generazione in generazione. Avevano anche la tradizione di esibirsi al bazar Burhwa Mangal nella primavera successiva al festival di Holi. Tali eventi fornivano loro un'occasione significativa, non solo di ricevere un patrocinio ma anche di mostrare le proprie abilità al pubblico generale, mantenendo così l'accettabilità sociale della loro professione.
I kotha, dove le tawaif spesso vivevano e si esibivano, ospitavano riunioni dell'intellighenzia locale, presiedute principalmente dalla tawaif più anziana. Godevano di influenza su scrittori, giornalisti e poeti che desideravano ardentemente esibirsi











L'IMCOMPIUTA di Guglielmo Campione


INDICE


INTRODUZIONE
HALLOWEEN E LE ALTRE FESTE DEI MORTI NELLE CULTURE DEL MONDO

BIBLIOGRAFIA

PREFAZIONE

L'INCOMPIUTA

THE UNFINISHED ( english version)

NOTE SULL'AUTORE





 
HALLOWEEN E LE ALTRE FESTE DEI MORTI NELLE CULTURE DEL MONDO

Halloween ha origini celtiche legate al culto dei morti e al passaggio tra stagioni, mentre il Día de los Muertos messicano nasce da tradizioni indigene che celebrano la memoria dei defunti con gioia e colori. Entrambe le feste condividono il tema della morte, ma lo affrontano con spiriti e significati profondamente diversi.

Le origini storiche di Halloween
Halloween affonda le sue radici nell’antico festival celtico di Samhain, celebrato il 31 ottobre per segnare la fine del raccolto e l’inizio dell’inverno.

I Celti credevano che in quella notte il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti si assottigliasse, permettendo agli spiriti di tornare sulla Terra.
Con l’avvento del Cristianesimo, Samhain fu in parte assorbito nella celebrazione di Ognissanti (All Hallows’ Day) il 1° novembre, e la notte precedente divenne All Hallows’ Eve, da cui deriva il nome “Halloween”. Col tempo, la festa si è trasformata in una celebrazione popolare con costumi, dolcetti, zucche intagliate e racconti dell’orrore, soprattutto nei paesi anglosassoni.

Día de los Muertos: la festa messicana dei morti

Il Día de los Muertos, celebrato tra il 1° e il 2 novembre, ha origini precolombiane, in particolare tra le civiltà azteche, maya e altre culture indigene del Messico. Queste popolazioni credevano che la morte fosse parte del ciclo della vita e che gli spiriti dei defunti tornassero a visitare i vivi durante questo periodo.
La festa è oggi un’esplosione di colori, musica, cibo e simboli: si allestiscono altari (ofrendas) con fiori di calendula, candele, fotografie, teschi di zucchero e il tradizionale pan de muerto. È un momento di ricordo gioioso, non di paura.

Differenze e somiglianze

Origine
Celtica (Samhain)
Mesoamericana (Aztechi, Maya)

Data
31 ottobre
1–2 novembre

Tema

Spiriti, paura, soprannaturale

Memoria, famiglia, celebrazione dei defunti

Simboli:

Halloween:Zucche, fantasmi, streghe.

Dias des muertos:Teschi di zucchero, altari, fiori

Tono:
HALLOWEEN Spaventoso, giocoso

Dia des muertos: Commemorativo, festoso.

Luogo principale:
Paesi anglosassoni

Messico e comunità latinoamericane

Un legame universale

Nonostante le differenze, entrambe le feste riflettono un bisogno umano universale: dare senso alla morte, onorare chi non c’è più e mantenere un legame con l’aldilà.

Halloween lo fa con maschere e mistero; il Día de los Muertos con luce, memoria e affetto.
 
Halloween celebra il confine tra mondi con simboli magici e travestimenti, la Dias des muertos invoca la misericordia divina per i trapassati.

Origini pagane di Halloween

Halloween deriva dal festival celtico di Samhain, celebrato il 31 ottobre per segnare la fine del raccolto e l’inizio dell’inverno. I Celti credevano che in quella notte il velo tra il mondo dei vivi e quello dei morti si assottigliasse, permettendo agli spiriti di vagare sulla terra. Per proteggersi, si accendevano fuochi sacri e ci si travestiva per confondere le entità soprannaturali.
Tuttavia, molti simboli — come zucche, streghe, fantasmi — mantengono un forte legame con il folklore pagano e la magia popolare.

La commemorazione cristiana del 2 novembre
Il Giorno dei Morti (All Souls’ Day) è una ricorrenza cristiana istituita ufficialmente nel X secolo, dedicata alla preghiera per le anime dei defunti, in particolare quelle in Purgatorio. A differenza di Halloween, non si tratta di una festa popolare o folklorica, ma di un rito liturgico che invita alla riflessione, alla penitenza e alla speranza nella resurrezione.
La Chiesa incoraggia in questa giornata la visita ai cimiteri, la celebrazione della Messa, e la recita di preghiere per i trapassati. Non ci sono travestimenti o elementi magici, ma gesti di pietà e memoria.

Confronto tra Halloween e il Giorno dei Morti
Halloween (paganesimo)

2 Novembre (cristianesimo)

Origine
Celtica (Samhain)

Liturgica (Chiesa medievale)

Data
31 ottobre
2 novembre

Tema:
Spiriti, confine tra mondi
Preghiera per i defunti

Simboli:
Zucche, travestimenti, fantasmi.
Candele, fiori, croci
Tono
Magico, folklorico, giocoso.

Solenne, spirituale, riflessivo

Finalità:

Protezione. Celebrazione del mistero,Intercessione, memoria, salvezza

Molte culture nel mondo celebrano giorni in cui si crede che i morti possano tornare tra i vivi — ma in alcune tradizioni, è anche il contrario: i vivi possono “avvicinarsi” al mondo dei morti.

Dai Celti al Giappone, dal Madagascar all’America Latina, il confine tra i due mondi si dissolve in momenti rituali condivisi.

Culture che credono nel ritorno dei morti sulla Terra
Ecco alcune delle tradizioni più significative:
Celtismo – Samhain (Irlanda, Scozia)
•      Celebrato il 31 ottobre, è l’origine di Halloween.
•      Si credeva che in quella notte gli spiriti potessero tornare tra i vivi.
•      I vivi accendevano fuochi e si travestivano per confondere gli spiriti.

Messico – Día de los Muertos
•      Celebrato il 1° e 2 novembre.
•      Le anime dei defunti tornano per visitare i loro cari.
•      Si preparano altari (ofrendas) con cibo, foto e oggetti amati dai defunti.

Giappone – Obon
•      Celebrato ad agosto.
•      Si accendono lanterne per guidare gli spiriti verso casa.
•      Le famiglie visitano le tombe e danzano in onore degli antenati.

Madagascar – Famadihana (“Rivoltamento dei morti”)
•      Ogni 5–7 anni, le famiglie riesumano i corpi degli antenati.
•      I defunti vengono avvolti in nuovi tessuti e celebrati con musica e danze.
•      Si crede che questo rafforzi il legame tra vivi e morti.
India – Pitru Paksha
•      Periodo di 16 giorni in settembre.
•      I vivi offrono cibo e preghiere agli antenati.
•      Si crede che gli spiriti visitino la Terra e benedicano chi li onora
.
Cina – Qingming Festival (Festa della Luminosità Pura)
•      Celebrato ad aprile.
•      Le famiglie puliscono le tombe e offrono cibo e incenso.
•      È un momento per “incontrare” gli antenati e rinnovare il legame.

Cosa accomuna queste tradizioni?
  Il tempo rituale: un giorno o periodo in cui il confine tra mondi si dissolve.
Il gesto di cura: cibo, luce, musica, preghiere, offerte.
La memoria attiva: non solo ricordo, ma relazione viva con chi non c’è più.

2.

Bibliografia

Tradizioni e antropologia del culto dei morti
•      James George Frazer, Il ramo d’oro (1890) Un classico dell’antropologia comparata che esplora i riti di morte, rinascita e sacrificio in molte culture antiche.
•      Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente (1977) Un’opera fondamentale per comprendere l’evoluzione del rapporto tra l’uomo occidentale e la morte, dal Medioevo al Novecento.
•      Mircea Eliade, Il sacro e il profano (1957) Analisi del tempo sacro e dei riti di passaggio, con riflessioni sul ritorno ciclico dei morti nei calendari religiosi.
•      Giordano Berti, Halloween. Origini e tradizioni (Odoya, 2011) Un saggio divulgativo che ricostruisce le radici celtiche di Halloween e il suo legame con Samhain.
•      Claudio Widmann, Il simbolismo del male (Moretti & Vitali, 2004) Un’indagine psicologica e simbolica sul male, la morte e le figure archetipiche dell’ombra.
Il Día de los Muertos e le culture mesoamericane
•      Carmen Tafolla & Amy Córdova, What Can You Do with a Rebozo? (Tricycle Press, 2008) Un libro illustrato che introduce i bambini (e non solo) alla cultura messicana e alle sue tradizioni, incluso il Día de los Muertos.
•      Octavio Paz, Il labirinto della solitudine (1950) Un saggio poetico e filosofico sull’identità messicana, con pagine memorabili dedicate al culto della morte.
•      David Carrasco (a cura di), The Oxford Encyclopedia of Mesoamerican Cultures (Oxford University Press, 2001) Un’opera enciclopedica che esplora le credenze religiose e i rituali delle civiltà precolombiane.
Riti e spiritualità in Asia e Africa
•      Robert J. Smith, Ancestor Worship in Contemporary Japan (Stanford University Press, 1974) Studio etnografico sul culto degli antenati e la festa di Obon nella società giapponese moderna.
•      Jack Goody, Death, Property and the Ancestors (Stanford University Press, 1962) Un classico sull’antropologia della morte in Africa, con particolare attenzione ai riti di sepoltura e al culto degli antenati.

Letteratura e immaginario del ritorno
•      Dino Buzzati, Il colombre e altri racconti (1958) Racconti in cui la morte, il mistero e l’invisibile si intrecciano con la vita quotidiana.
•      Isabel Allende, La casa degli spiriti (1982) Romanzo che fonde realismo magico e memoria familiare, dove i morti continuano a vivere accanto ai vivi.
•      Toni Morrison, Beloved (1987) Una delle più potenti narrazioni contemporanee sul ritorno dei morti e sulla memoria come presenza viva.


3.
L'INCOMPIUTA
 
Rimanda solo a domani ció che sei disposto a lasciare incompiuto prima di morire”. 
 
La Pietà Rondanini viene considerata il testamento artistico di Michelangelo, il quale morendo a ottanta e passa anni, la lascia incompiuta. Un uomo che, nella sua scultura, aveva inseguito tutta la vita la poetica del “non finito” come massima espressione della perfezione scultorea, deve lasciare “non finito”, incompiuto, il suo testamento non per scelta, ma per cause di forza maggiore, la sua morte.               ____
 
Secondo una comune evenienza della vita, Peppino era morto mentre aveva ancora qualcosa da fare 
Tutti sempre lasciamo qualcosa da fare, un'incompiuta, un orto da zappare, due peperoni da raccogliere, un paziente da curare, un mobile da finire, uno scialle da ricamare, una focaccia da infornare, un impostore da smascherare, un concerto da suonare, una donna da amare, un libro da finire, un testo da musicare. 
 
La gente credeva in realtà che solo nella notte tra il 1 e il 2 novembre le anime dei morti uscissero dalle tombe e, varcato il cancello del cimitero, sparissero nell'oscurità per andare a sistemare quanto lasciato in sospeso prima di morire. 
 
In realtà i morti se avevano da finire una cosa non stavano ad aspettare certo il 2 novembre: quelle erano cose che faceva comodo credere ai vivi, in modo da stare tranquilli per il resto dell’anno, confinando solo in tal data e in quella della settimana santa pre pasquale l’angoscia relativa alla morte. 
 
Gli amici vicini di tomba di Peppino, Noffrino il pescatore, Nicola il falegname, Cosimo il contadino e Carletto il dottore cercavano di dissuaderlo ma Peppino era nato a Mola e teneva la capa tosta, come dice da sempre un antico detto popolare da quelle parti.
Questa fissazione lo ossessionava e non gli faceva prendere il sonno eterno, quello che non contempla seccanti sveglie notturne per andare a fare la pipí e altrettanti seccanti sveglie mattutine piene di dolori e, nonostante quelli, una marea di cose da fare e problemi da risolvere.
Si diceva fra sé e sé: finisco sta cosa e mi godo la pace eterna.
 
La stessa notte del 2 novembre, si credeva anche che iniziasse una processione dei morti, uscita dal camposanto per tutta Via dei Cipressi sino ad arrivare alla chiesa di sant Eustorgio nella grande Piazza dei Santi Magi.
I vivi, in silenzio, potevano vedere la lunga processione uscendo sul balcone o sul terrazzo in cima alle loro case ma solo guardando in un catino d’acqua: l'acqua limpida si comportava come uno specchio in cui ognuno proiettava ricordi e desideri che prendevano vita come le apparizioni dei morti nei sogni.
Non si potevano chiamare per nome quelli che si riconoscevano, altrimenti si rischiava di perdere la parola o, addirittura, dopo tre giorni, la vita. 
 

 
Ma cosa doveva finire di così importante Peppino?
 
 Bisogna sapere che Peppino suonava il rullante nella banda del paese e non era mai riuscito in vita, pur morendo a 87 anni, a imparare un difficile passaggio della partitura musicale della  processione dei misteri della passione di Nostro Signore del venerdì santo notte corrispondente al crescendo ritmico e armonico, e alla tensione che necessariamente ne derivava, alla comparsa della statua del Cristo in croce cui seguiva una rilassamento di tale tensione al momento del passaggio della Madonna addolorata con i 7 pugnali dorati del dolore conficcati in petto, simbolo della profezia del vecchio Simeone, la fuga in Egitto, lo smarrimento di Gesù a 12 a2nni, il suo viaggio al Golgota, la crocifissione, la deposizione dalla croce e la sepoltura di Gesú. 
 
Quindi quando ricorse anche quell'anno la settimana della passione nel mese di marzo del-l'anno della sua morte il 2 gennaio 1950, Peppino, che quindi era morto da poco e come tutti i giovani aveva i grilli in testa come se fosse ancora vivo, uscí dal cimitero di notte per andare alle prove della sua vecchia banda. 
 

 
Uscito dal cancello peró pensò di passare prima da casa perché ne aveva nostalgia e perché non era certo quella l’ora delle prove della banda.
Dopo il caffè e briosce al Bar Donizetti da Cenzino, i musicisti avrebbero raggiunto nell’oratorio della chiesa di san Procopio il resto della banda. 
In veritá Peppino giá se la rideva sotto i baffi a pensare al fatto che i colleghi non lo avrebbero visto né sentito ma lui come una spia invece avrebbe visto e sentito tutto! Chi sa i pettegolezzi, le storie di corna, le battute sulla bella figlia del direttore e cosí via.
 
Potevano essere le due di notte quando entrò nella sua vecchia casa.
Vide subito sopra il comò una candela accesa e sopra un centrino ricamato a uncinetto la figura di San Nicola e quella della Madonna del pozzo di Capurso.
E in mezzo il suo ritratto fatto durante la festa dei Santi Medici Cosma e Damiano con la divisa e il cappello della banda, i baffetti ben sagomati da Michelino il barbiere. 
E gli venne un ricordo di quando era bambino che era novembre, il mese dei morti come lui ora. 
Con quel tempo nero che ci avverte che l'anno a poco a poco sta finendo come una vecchietta che ha sonno e vuole andare a dormire. Quella sera sua Madre Angelina gli diceva:
“Se te ne vai a dormire prima stasera, sopra la porta appendo la calza vuota e domani mattina te la troverai piena di confetti.
Stanotte si lascia la porta aperta e sopra la tavola ben apparecchiata si mette tutto il ben di iddio che abbiamo comprato oggi”.
Si ricordò che tutto quel discorso a quei tempi non lo capiva e se ne andò a letto ma non riusciva ad addormentarsi. Il cuore batteva forte in petto e gli occhi aperti sempre fissi sulla porta.
La lampada sul comò tremava e faceva balenare ombre sul muro che fermavano il sangue nelle vene. Voleva chiamare sua madre ma non riusciva perché pensava che il morto che doveva venire notte tempo lo avrebbe sentito. 
Allora si ripeteva tre padrenostri e tre Ave Marie fino a quando prendeva sonno fino alle otto di mattina.
Appena sveglio guardava subito le calze appese alla porta da sua madre: una era piena e l’altra era vuota. Saltava poi sul letto a gambe incrociate, apriva la calza e trovava confetti, noci, ceci e semenze cotte, caramelle, cioccolate, fave arrostite e castagne cotte. La madre in un angolo sferruzzava per finire un maglione e rideva sotto i baffi. 
 
Quello era pure il periodo dell'anno che mamma Angelina dedicava all'educazione dei figli su superstizioni, credenze, scongiuri che riguardavano i morti: 
 
Era peccato mortale il venir meno al giuramento fatto dinanzi al morto. 
Lo squittire della civetta “checchevàsce” o meglio “u malacìidde” è presagio di morte.
Se canta sulla casa dov’è un malato, questo è spacciato. 
Se canta sul tetto di una casa vicina, ci saranno disgrazie. 
Al suo monotono lamento tutti si spaventano e facendosi il segno della croce ripetono: “Beata dove cova, maledetta dove canta”.
Vedendosi alle spalle o incontrare una carrozza dei morti con la cassa mortuaria vuota, era d’indubbio segno di cattivo presagio allora, gli uomini si toccavano i testicoli oppure accarezzavano il corno o una chiave di loro proprietà, toccavano ferro, come per esempio, un palo o un cancello.
 
4
 
Il giorno dopo era il giovedì in "Coena Domini" precedente al cruciale venerdi santo. 
La banda quindi era impegnata nell'ultima prova generale in cui suonava tutta la marcia funebre. 
Si iniziava a partire da un motivo orientaleggiante eseguito solo da 4 elementi, flauto, grancassa, rullante e piatti.
Il rullo del tamburo, intervallato dal colpo ritmico della grancassa, faceva da accompagnamento al flauto; alla fine di questo motivo, vi erano gli squilli di una tromba.
La melodia eseguita dal quartetto era strana e mesta nello stesso istante. Al rullo ritmato del tamburo si mescolavano i colpi della grancassa, cui si univa il suono sottile del flauto, componendo un motivo di tipo orientale malinconico finchè alla fine interveniva la tromba con degli alti e bassi.
Nella parte del rullo senza chiave musicale c’era il ritmo segnato; in quella della tromba, in Do maggiore, c’era il motivo con note precise e sicure: Mi, Do, Sol, Sol. Attraverso il flauto in chiave di Si bemolle veniva espressa una melodia fatta di terzine basate su semitoni, con semicroma e semibiscroma a coda finale per la tromba.
Peppino si sistemò, non visto, al fianco del rullantista che l'aveva sostituito, un certo Spiridione, una quarantina d'anni e una discreta esperienza, per seguire il movimento delle mani e lo spartito infilato in un supporto a forma di Lira antica, in modo da poter suonare il venerdì appresso e vedere di essere capace di suonare definitivamente bene sto benedetto passaggio e chiudere così per sempre la faccenda terrena.
Gli si pose peró subito il problema di come suonare il tamburo reale senza essere visto e sentito. 
Allora a Peppino venne un idea: si sarebbe seduto dietro a Spiridione e mettendo le mani sulle sue avrebbe sentito come e quando colpiva la pelle battente, come e quando eseguiva le pause, e come rispettava le dinamiche di volume alto o basso a seconda della situazione. 
Provò le prime battute della marcia e progressivamente capí la giusta presa che doveva tenere sulle mani di Spiridione per sentirne meglio i movimenti senza frenarle inopportunamente. 
Prova che ti riprova l’esecuzione andò avanti senza intoppi sin quando giunsero al punto cruciale: il crescendo ritmico- armonico, e la tensione che necessariamente ne derivava, alla comparsa della statua del Cristo in croce per poi trovare una rilassamento di tal tensione al momento del passaggio della Madonna addolorata  
Peppino saggiamente, forse di quella saggezza che viene dal distacco che ci fa fare le cose senza la paura del nostro ingombrante Ego di viventi di sbagliare e fare figure dinanzi ad altri, si lasciò andare e guidare dalle mani di Spiridione come un bambino per mano al suo papà che impara a camminare o andare in bici.
D'altronde quelle preoccupazioni erano per lui ormai relative visto che per lui la faccenda si riassumeva piu semplicemente con un solitario conto con sé stesso quello di non lasciare incompiute. 
Eseguí perfettamente il crescendo ritmico e armonico che generava la tensione emotiva alla comparsa della statua del Cristo in croce per poi sciogliere quell'aria drammatica al momento del passaggio della Madonna addolorata, suonando con la banda un'aria piu dolcemente arresa e semmai nostalgica.
Il primo rito del venerdi santo aveva inizio nel pomeriggio e durava sette ore dalle cinque a mezzanotte: sul sagrato della chiesa dell’Incoronata veniva montato un baldacchino nero e sulla soglia della chiesa alle diciassette appariva l’Addolorata mentre la banda intonava lo “Stabat Mater” di Rossini. Questa prima processione terminava verso la mezzanotte. 
La seconda processione era quella dei misteri del venerdí santo condotta dai fratelli dell’Arciconfraternita dei Santi medici Cosma e Damiano e iniziava alle tre del mattino. Ad essere portate in spalla in processione dai confratelli erano statue lignee rappresentanti i Misteri dolorosi. La processione aveva inizio dal sagrato della chiesa di S. Ignazio. Le statue si muovevano lente per le strade del centro sulle note delle marce. 
Un’ora prima dell’uscita delle statue, “il tamburo” girava per le principali vie cittadine, deserte e silenziose, allo scopo di svegliare i confratelli che dovevano partecipare alle sfilate.
I quattro musicanti andavano a passi lenti suonando con ritmo cadenzato e monotono; di tanto in tanto sostavano con pazienza, cessando di suonare. Ma un cenno del capo del maestro segnava la ripresa musicale e i musicisti ridavano mano agli strumenti, con aria muta e paziente 
 
Poi c’erano anche le processioni che iniziavano allo scoccare della mezzanotte del martedì grasso, per dare un inizio formale al periodo quaresimale: un avvertimento e richiamo, per il popolo dei fedeli, alla transitorietà della vita, alla ineluttabilità della morte e, quindi, invito alla penitenza, che segnava la fine del carnevale. Il carnevale era una data lungamente attesa nell’anno. Aveva un significato esplosivo; era l’occasione per sovvertire burlescamente l’ordine costituito: ci si mascherava con poco, ci si ritrovava nelle strade, fra uno stridìo di trombette, il lancio di polveri colorate, di confetti di farina. Si ballava nelle piazze, si improvvisavano scenette si organizzavano balli nelle case e nei luoghi pubblici. Negli ultimi giorni di carnevale, e specialmente nell’ultimo martedì grasso tutto il paese sembrava preda di una follia generale. Una volta l’anno, per uomini e donne, giovani e vecchi “era lecito insanire”. 
Ma a mezzanotte le campane delle chiese annunciavano con i loro rintocchi mesti e lugubri l’inizio della quaresima, richiamando gli uomini alla realtà della loro condizione terrestre, ricordando l’illusoria vanità delle gioie, la brevità dell’esistenza, l’appuntamento inevitabile con la morte. La processione si aggirava per le strade seminate di coriandoli, mettendo in fuga le ultime maschere solitarie, sparute falene nel grembo luttuoso della notte. Laddove transitava la Croce, le finestre ancora illuminate si spegnevano, nelle case le musiche si fermavano, cessavano i balli e non erano pochi coloro che, abbandonati gli abiti carnascialeschi, seguivano il corteo processionale. La Croce passava come un angelo sterminatore delle baldorie sfrenate, come un fuoco purificatore dell’inverecondia, dell’immoderatezza cui si era lasciati andare in quei giorni. Dove essa non giungeva, arriva l’eco del suono della tromba, universale, apocalittico, come il risveglio dei morti alla fine del mondo.
 
Venne cosí il grande giorno del venerdì santo e Peppino si vesti con la sua tenuta da bandista con tanto di cappello, recuperò dalla custodia sotto al letto il rullante e se lo mise a tracollo.
Si avviò verso la chiesa dell’Incoronata che la campana della chiesa di Sant Ignazio batteva le sedici e trenta per essere li in tempo per l’inizio del rito alle diciassette in punto.
Tutta la banda era riunita.
Il maestro chiacchierava col parroco che s’affannava a calmare e zittire la masnada di scugnizzi che nonostante l’occasione non smettevano di rincorrersi e darsi calate, rumorosi schiaffi sul collo.
E cosi, non visto, prese posto vicino all’ignaro Spiridione che proprio di lui stava pettegolando con Saverio il basso tuba dicendo che Peppino era vecchio ormai, perdeva colpi, rallentava i ritmi ma non si convinceva che era giunto il momento di smettere quando ci pensó il Padre Eterno a toglierlo dai piedi chiamandolo a sé.
Peppino sentiva suonare tutta la banda e il suo rullante mentre la banda non poteva sentire il suo ma questo Peppino non poteva saperlo perché di fatto s’illudeva, pur senza dirselo, in fin dei conti di d’esser ancora vivo e godere deĺla possibilità reale di produrre suoni fisicamente percepibili da orecchio umano. 
Nelle prove era pur vero che aveva eseguito finalmente bene, o cosi gli era sembrato, il famigerato passaggio musicale, ma le mani gli occhi e la mente erano di Spiridione in fin dei conti.
Cosicché quando si tratto di suonare, Peppino suonó dall’inizio alla fine tutta la partitura prevista e bene e rimase molto soddisfatto. In realtà del suono del suo rullante non si sentí una sola nota ma solo quelle perfette di Spiridione.
 
 
5
 
Ora non c’era più nessuna incompiuta e si poteva ritirare nel suo mondo ultraterreno godendosi finalmente il meritato sonno, il Sonno di tutti i sonni.
Mentre si avviava lungo via dei cipressi al cimitero incrociò altri morti come lui che erano usciti per lo stesso motivo, completare qualcosa che avevano lasciato incompiuto e ora se ne tornavano alla tomba.
Li vide tristi e disillusi, camminavano a testa bassa con le mani in tasca, silenziosi, solo due parlavano fra di loro, allora affrettó il passo per sentire che dicevano.
 
“E ci siamo tolti pure quest’ultima illusione, il Padre Eterno comprensivo ce l’ha permesso visto che da soli non ci arrivavamo. Io pensavo di finire quel veliero nella bottiglia, erano vent’anni che ci lavoravo, mancava giusto attaccare l’áncora alla fiancata del vascello.
 
“Io invece non ero mai riuscito a dire ti amo ad Angela, era troppo bella e avevo paura che mi diceva di no, allora era meglio cullarmi quell’illusione che avere un no definitivo come la morte sulla faccia.
 
“E allora, scusate se mi intrometto, disse Peppino dandosi coraggio, com è andata? Avete completato l’opera? Io dovevo eseguire un passaggio musicale della processione del Venerdì santo che non mi era mai riuscito, ma questa volta ce l’ho fatta”.
 
Gli altri si guardarono fra loro poi dopo un cenno d’assenso di tutti uno di loro, Saverio quello innamorato di Angela, gli disse:
 
“Peppino caro, tu sentivi suonare tutta la banda e il tuo rullante ma la banda non poteva sentire il tuo: questo tu peró non potevi saperlo perché come noi t’illudevi, pur senza dirtelo, in fin dei conti, d’esser ancora un po’vivo quel tanto che bastava a godere deĺla possibilità reale di produrre suoni fisicamente percepibili da orecchio umano”.
 
A Peppino scese una lacrima:
“Eppure avevo suonato finalmente così bene! Che peccato che gli altri non abbiano sentito”.
 
“Quel che pensano gli altri non è piu affar nostro, mio caro fratello, siamo liberi ora da ste scemenze” disse Ciccillo, quello del vascello nella bottiglia”. 
E poi aggiunse:
 
“Passerá pure sto periodo di attaccamento residuo alle cose e alle persone di qua sotto, me l’ha detto uno di noi, vecchio di ste cose. Un pó di pazienza ancora, fratelli, le incompiute resteranno tali e forse verranno dimenticate” concluse Saverio.
 
“O invece qualcuno le finirà - disse Peppino - la speranza non è forse l’ultima a morire?”
 
Peppino aveva sempre avuto la testa dura, era cosa risaputa.
 
 
 
3
THE UNFINISHED
by Guglielmo Campione
 
 
“Postpone only what you're willing to leave unfinished before you die.”
 
The Rondanini Pietà is considered Michelangelo’s artistic testament. He died in his eighties, leaving it incomplete. A man who, through sculpture, had pursued all his life the poetics of the “non finito” — the unfinished — as the highest expression of sculptural perfection, was forced to leave his final work unfinished not by choice, but by necessity: death.
 
 
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As often happens in life, Peppino died while he still had something left to do. We all leave something undone — a garden to hoe, two peppers to pick, a patient to heal, a cabinet to finish, a shawl to embroider, a focaccia to bake, a fraud to expose, a concert to play, a woman to love, a book to finish, a song to compose.
People believed that only on the night between November 1st and 2nd did the souls of the dead rise from their graves and, passing through the cemetery gate, vanish into the darkness to settle what they had left unfinished before dying.
But in truth, if the dead had something to finish, they didn’t wait for November 2nd. That was a comforting belief for the living — a way to keep death anxiety confined to that date and to Holy Week before Easter, leaving the rest of the year in peace.
Peppino’s tomb neighbors — Noffrino the fisherman, Nicola the carpenter, Cosimo the farmer, and Carletto the doctor — tried to dissuade him. But Peppino was born in Mola and had a hard head, as the old local saying goes.
This obsession haunted him and kept him from embracing eternal sleep — the kind that doesn’t include annoying nighttime wake-ups to pee or painful mornings full of chores and problems to solve. He kept telling himself: Let me finish this one thing, and then I’ll enjoy eternal peace.
On the same night of November 2nd, it was also believed that a procession of the dead would begin, leaving the cemetery and walking down Cypress Street all the way to the Church of Saint Eustorgio in the grand Square of the Holy Magi.
The living, in silence, could watch the long procession from their balconies or rooftops — but only by looking into a basin of water. Clear water acted like a mirror, reflecting memories and desires that came to life like the dead appearing in dreams.
You couldn’t call out the names of those you recognized — doing so risked losing your voice, or worse, your life within three days.
 
But what was so important that Peppino needed to finish?
You have to know that Peppino played the snare drum in the town band, and even though he died at the age of 87, he had never managed — in life — to master a particularly difficult passage in the musical score for the Procession of the Mysteries of the Passion of Our Lord, held on Good Friday night. That passage marked the rhythmic and harmonic crescendo, the rising tension that inevitably accompanied the appearance of the statue of Christ on the cross. This was followed by a release of that tension as the statue of the Sorrowful Virgin passed by, pierced in the chest by seven golden daggers of grief — symbols of the prophecy of old Simeon: the flight into Egypt, the loss of Jesus at age twelve, His journey to Golgotha, the crucifixion, the descent from the cross, and the burial of Christ.
So when Holy Week came around again that year — in March of the same year he had died, on January 2nd, 1950 — Peppino, who had only recently passed away and still had the restless energy of the living, slipped out of the cemetery at night to attend rehearsals with his old band.
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Once he passed through the gate, he thought he’d stop by his house first — he missed it, and it wasn’t yet time for band rehearsal.
After coffee and brioche at Donizetti’s Bar with Cenzino, the musicians would head to the oratory of Saint Procopius Church to join the rest of the band.
Peppino was already chuckling under his mustache at the thought that his colleagues wouldn’t see or hear him — but he, like a spy, would see and hear everything! Who knew what gossip, what affairs, what jokes about the band director’s beautiful daughter he might overhear.
It must have been around two in the morning when he entered his old home.
He immediately saw a lit candle on the dresser, and on a crocheted doily, the figures of Saint Nicholas and the Madonna of the Well of Capurso. In the center was his portrait, taken during the feast of Saints Cosmas and Damian, wearing the band uniform and cap, his mustache neatly trimmed by Michelino the barber.
And he remembered a time when he was a child — it was November, the month of the dead, just like him now. That dark weather that warns us the year is slowly ending, like an old lady who’s sleepy and wants to go to bed.
That evening, his mother Angelina had said: “If you go to bed early tonight, I’ll hang an empty stocking on the door, and tomorrow morning you’ll find it full of sweets. Tonight we leave the door open and set the table with all the good things we bought today.”
He remembered not understanding any of it back then, and going to bed — but unable to sleep. His heart pounded in his chest, his eyes fixed on the door. The lamp on the dresser flickered, casting shadows on the wall that froze the blood in his veins. He wanted to call his mother but couldn’t — afraid the dead who were supposed to come that night would hear him.
So he repeated three Our Fathers and three Hail Marys until he finally fell asleep, waking at eight in the morning.
As soon as he woke, he looked at the stockings his mother had hung on the door: one was full, the other empty. He jumped on the bed cross-legged, opened the full stocking, and found candies, walnuts, roasted chickpeas and seeds, chocolates, roasted fava beans, and cooked chestnuts. His mother sat in a corner knitting a sweater and chuckled under her breath.
That time of year was also when Mama Angelina taught her children about superstitions, beliefs, and omens related to the dead:
It was a mortal sin to break a promise made before the dead. The screech of the owl — “checchevàsce,” or more precisely “u malacìidde” — was a sign of death. If it sang over a house with a sick person, that person was doomed. If it sang on the roof of a nearby house, misfortune was coming. At its monotonous cry, everyone would tremble and make the sign of the cross, saying: “Blessed where it nests, cursed where it sings.”
If you saw behind you — or encountered — a funeral carriage with an empty coffin, it was a sure sign of bad luck. Men would touch their testicles, stroke a horn or a key they owned, or touch iron — like a pole or a gate.

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The next day was Holy Thursday, Coena Domini, preceding the crucial Good Friday. The band was engaged in its final rehearsal, performing the entire funeral march.
It began with an oriental-sounding motif played by just four instruments: flute, bass drum, snare drum, and cymbals. The snare’s roll, punctuated by the rhythmic thud of the bass drum, accompanied the flute. At the end of the motif came the trumpet’s calls.
The melody played by the quartet was strange and mournful at once. The rhythmic snare blended with the bass drum’s strikes, joined by the flute’s thin tone, forming a melancholic oriental theme until the trumpet entered with its highs and lows.
In the snare part, without a musical key, the rhythm was marked; in the trumpet part, in C major, the motif was clear and precise: E, C, G, G. Through the flute in B-flat key, a melody of triplets based on semitones emerged, ending with a tail of semiquavers and demisemiquavers for the trumpet.
Peppino positioned himself, unseen, beside the snare drummer who had replaced him — a certain Spiridione, around forty, with decent experience — to follow the movement of his hands and the score mounted on a lyre-shaped stand. He hoped to play the following Friday and finally master that blessed passage, closing the earthly matter once and for all.
But a problem arose: how could he play the actual drum without being seen or heard?
Then Peppino had an idea: he would sit behind Spiridione and place his hands over his, feeling when and how he struck the drumhead, when he paused, and how he adjusted volume dynamics.
He tried the first bars of the march and gradually understood the right grip to hold on Spiridione’s hands — enough to feel the movements without hindering them.
Try after try, the performance went smoothly until they reached the crucial point: the rhythmic-harmonic crescendo and the tension that inevitably followed the appearance of the statue of Christ on the cross, then the release of that tension with the passage of the Sorrowful Virgin.
Peppino wisely — perhaps with the wisdom that comes from detachment, allowing us to act without fear of our cumbersome living ego — let himself be guided by Spiridione’s hands like a child learning to walk or ride a bike, hand in hand with his father.
After all, those worries were now relative. For Peppino, it was simply a solitary reckoning with himself: not to leave things unfinished.
He executed the crescendo perfectly, generating emotional tension at the appearance of Christ on the cross, then softened the dramatic air with the passage of the Sorrowful Virgin, playing with the band a more gently surrendered, even nostalgic, melody.
The first Good Friday rite began in the afternoon and lasted seven hours, from five until midnight. On the steps of the Church of the Crowned Virgin, a black canopy was erected, and at five o’clock, the Sorrowful Virgin appeared at the church threshold while the band played Rossini’s Stabat Mater. This first procession ended around midnight.
The second procession — the Mysteries of Good Friday — was led by the brothers of the Archconfraternity of Saints Cosmas and Damian, beginning at three in the morning. Wooden statues representing the sorrowful mysteries were carried on shoulders through the streets, starting from the steps of Saint Ignatius Church, moving slowly to the sound of funeral marches.
An hour before the statues emerged, “the drum” roamed the city’s main streets — deserted and silent — to awaken the brothers who would join the procession.
The four musicians walked slowly, playing a cadenced, monotonous rhythm. From time to time, they paused patiently, falling silent. A nod from the maestro signaled the resumption, and the musicians took up their instruments again, mute and patient.
There were also processions that began at midnight on Mardi Gras, formally opening the Lenten season — a warning and reminder to the faithful of life’s transience, death’s inevitability, and a call to penance marking the end of Carnival.
Carnival was a long-awaited date each year. It had explosive meaning — a chance to mock the established order: people dressed up with little, gathered in the streets amid trumpet squeals, colored powders, and flour confetti. They danced in the squares, improvised skits, organized parties in homes and public places. In the final days — especially on Mardi Gras — the whole town seemed seized by collective madness. Once a year, for men and women, young and old, “it was lawful to go insane.”
But at midnight, church bells rang with mournful tones, announcing the start of Lent, calling people back to the reality of their earthly condition, reminding them of the fleeting vanity of joy, the brevity of life, and the inevitable appointment with death.
The procession wandered through streets strewn with confetti, chasing away the last lonely masks — scattered moths in the mournful womb of night. Wherever the Cross passed, lit windows went dark, music stopped, dancing ceased, and many — shedding their carnival costumes — joined the procession.
The Cross passed like an avenging angel of revelry, a purifying fire against indecency and excess. Where it didn’t reach, the echo of the trumpet’s sound arrived — universal, apocalyptic — like the awakening of the dead at the end of the world.
Then came the great day of Good Friday. Peppino dressed in his band uniform, complete with cap, retrieved his snare drum from under the bed, and slung it over his shoulder.
He headed toward the Church of the Crowned Virgin as the bell of Saint Ignatius rang four-thirty, to be there in time for the rite’s start at five sharp.
The whole band was assembled. The maestro chatted with the parish priest, who struggled to calm and silence the pack of street kids who, despite the occasion, kept chasing each other and slapping necks noisily.
And so, unseen, Peppino took his place beside the unsuspecting Spiridione, who was gossiping about him with Saverio the tuba player, saying Peppino was old, losing his touch, slowing down the rhythm, and couldn’t accept it was time to quit — until the Lord took him away.
Peppino heard the whole band and his snare drum playing, while the band couldn’t hear his — but Peppino didn’t know that. He still believed, without admitting it, that he was alive and capable of producing sounds perceptible to human ears.
During rehearsals, he had finally played the infamous passage well — or so it seemed — but the hands, eyes, and mind were Spiridione’s, after all.
So when it came time to play, Peppino performed the entire score from beginning to end, and was very satisfied. In truth, not a single note of his snare was heard — only Spiridione’s perfect ones.
 
5
Now there were no more unfinished things. Peppino could retreat into his otherworldly realm and finally enjoy his well-earned rest — the Sleep of all sleeps.
As he walked down Cypress Street toward the cemetery, he crossed paths with other dead souls like him, who had come out for the same reason: to finish something they had left incomplete, and were now returning to their graves.
He saw them sad and disillusioned, walking with heads down and hands in their pockets, silent. Only two were speaking, so he quickened his pace to hear what they were saying.
“And so we’ve shed even this last illusion,” one said. “The merciful Lord allowed it, since we couldn’t let go on our own. I thought I’d finish that ship in a bottle — I’d been working on it for twenty years. All that was left was attaching the anchor to the hull.”
“I never managed to say ‘I love you’ to Angela,” said the other. “She was too beautiful, and I was afraid she’d say no. So it was better to cradle that illusion than face a definitive ‘no’ — like death itself.”
“Excuse me for interrupting,” Peppino said, gathering courage. “How did it go? Did you finish your work? I had to play a musical passage in the Good Friday procession that I never got right — but this time, I did it.”
The others looked at each other. After a silent nod from all, one of them — Saverio, the one in love with Angela — replied:
“Dear Peppino, you heard the whole band and your snare drum, but the band couldn’t hear yours. You couldn’t have known, because like us, you were still clinging — without admitting it — to the illusion of being just alive enough to produce sounds perceptible to human ears.”
A tear rolled down Peppino’s cheek. “But I finally played it so well! What a shame the others didn’t hear.”
“What others think is no longer our concern, dear brother,” said Ciccillo, the one with the ship in the bottle. Then he added:
“This lingering attachment to things and people down here will pass — one of us, who’s been dead a long time, told me so. Just a little more patience, brothers. The unfinished things will remain as they are, and maybe they’ll be forgotten,” concluded Saverio.
“Or maybe someone will finish them,” said Peppino. “Isn’t hope the last to die?”
Peppino had always been stubborn — everyone knew that.



4.
NOTE AUTORE

Guglielmo Campione
Bari 1957.
Scrittore, medico psicoanalista a Milano.

Dopo quarant’anni di esercizio clinico come medico psicoanalista, ha trasformato l’ascolto profondo dell’umano in materia viva per la scrittura. La sua opera letteraria nasce da un lungo dialogo con l’inconscio, con le ferite invisibili, con le parole non dette. La pratica medica non è stata solo professione, ma terreno fertile per una poetica che interroga il senso, la memoria, il desiderio.

Autore di numerosi romanzi e antologie di racconti, ha saputo dare voce a personaggi che abitano il confine tra realtà e simbolo, tra quotidiano e mito. La sua produzione poetica comprende sei raccolte, tradotte in latino, greco antico, spagnolo, inglese e portoghese, a testimonianza di una lingua che sa attraversare epoche e geografie.

Nel 2019 ha ricevuto il Premio Poesia della IX edizione del Premio Città di Castello, a cura di Luoghi Interiori Editore, per una raccolta LE DIVISIONI DEL MONDO che ha saputo coniugare -per Alessandro Quasimodo (1939.2025) attore, regista e poeta figlio del premio nobel Salvatore Quasimodo e presidente della commissione di valutazione - intensità lirica e profondità psichica.
Tra le sue opere più significative sul tema della morte si segnala il racconto L’Incompiuta, una meditazione poetica e narrativa sulla leggenda del ritorno dei morti sulla terra e sul confine tra la vita e l’aldilà :
.   Memento mori, in Capa di ferro, Amazon e Racconti Horror Hystorica edizioni.

• Il polpo e il teschio, 19 canti per migranti e transfughi del Mediterraneo dedicato alla sepoltura abissale marina degli annegati
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• Il personaggio della medium Innocenza, donna di medicina e custode di segreti ancestrali, nel romanzo Santina Favolla – La masciara bianca (Amazon)
Nel filone dedicato al magico e al femminile sacro, ha scritto:
• Donna Beatilla, romanzo dedicato ai poteri maieutici simbolici e iniziatici di una sarta Lucana dei primi del 900.
• Mar Isabella: Isabella d’Aragona, Duchessa di Bari e Milano e il potere dei sacri sigilli – di prossima pubblicazione, un’opera che intreccia storia, esoterismo e potere spirituale
Nel filone della Metamorfosi animale femminile
• Santina Favolla – La masciara bianca, storia di metamorfosi femminile
 ,di medicina popolare e di mistero
• Octapia – La Selkie di Étretat, Normandia, racconto mitico e marino ispirato alle leggende celtiche delle metamorfosi femminile in donna foca.

La sua scrittura è riconoscibile per la tensione tra il non-finito e lo storico, tra il gesto clinico e quello poetico.
Ogni testo di Campione è una seduta di ascolto, ogni verso una diagnosi dell’anima.