I Moghul erano una dinastia musulmana che governò gran parte dell'Asia meridionale (l'attuale India, Pakistan e Bangladesh) dal XVI all'inizio del XVIII secolo. Furono responsabili della diffusione dell'Islam nella regione e fondarono un impero che divenne famoso per la sua ricchezza, il mecenatismo artistico (con opere come il Taj Mahal) e la sua influenza culturale.
L'impero fu fondato da Babur nel 1526 e discendeva da Tamerlano e dai Mongoli.
Raggiunse il suo apice sotto imperatori come Akbar, noto per la sua tolleranza religiosa, e Shah Jahan, il cui regno è spesso associato alla grande architettura moghul.
L'impero iniziò a declinare dopo la morte di Aurangzeb nel 1707, anche se i resti del potere moghul sopravvissero fino al 1857.
I Moghul erano musulmani che regnavano su una popolazione prevalentemente indù e, pur con tensioni, il loro regno fu caratterizzato da una notevole tolleranza religiosa. La loro influenza culturale si manifestò nell'architettura, nella pittura e nella diffusione dell'Islam.
2.
TAWAIF
Per diventare tawaif, a Dharmman Bibi erano stati insegnati tutti i trucchi per far innamorare di sé qualsiasi uomo. Altrettanto importante, era stata ripetutamente ammonita a non innamorarsi mai di un mecenate; era un'emozione, l'avevano avvertita, che confondeva la mente, offuscava il giudizio e indeboliva la capacità della tawaif di ottenere il massimo dal suo amante finché le cose andavano bene.
La zia di Dharmman Bibi, Zahooran, era una tawaif estremamente popolare a Shahabad da giovane. Sebbene fosse già ben oltre la mezza età quando Dharmman catturò l'attenzione di Babu Kunwar Singh, Zahooran non era ancora in pensione e aveva a sua completa disposizione alcuni amanti ricchi e influenti. Nota per la sua lungimiranza nella scelta dei suoi clienti, si diceva che Zahooran potesse contare le piume sulle ali di un uccello in volo. Ma era destinata a commettere un fatale errore di giudizio. Con grande sorpresa di Dharmman, iniziò a intrattenere regolarmente un nuovo arrivato in città, Khanazad Khan, di un fascino irresistibile, del cui passato nessuno sapeva nulla. Affabile, affascinante e sempre elegantemente vestita, Khanazad Khan di Patna era specializzata nel sedurre ricche tawaif che vivevano sole. Di solito erano tra le donne più ricche di qualsiasi città. Le loro case erano aperte a ogni genere di visitatori, il che rendeva l'accesso relativamente facile, e anche la polizia era meno propensa a perseguire con zelo un caso che coinvolgeva i tawaif rispetto a uno che coinvolgeva una vittima "rispettabile" e di classe superiore. Fingendosi un ricco commerciante viaggiatore, Khanazad Khan si guadagnava la fiducia di una cortigiana, con una stravagante ostentazione di ricchezza, sollecitudine e cortesia
Una volta conquistata la sua fiducia, le avvelenava il cibo o il drink e se ne andava con tutti i suoi gioielli e il suo denaro. Dopo diversi tentativi riusciti di sequestrare cortigiane in tutto il Bihar, e prima ancora nelle province del Nord-Ovest, Khanazad Khan raggiunse Arrah. Sempre scrupoloso nelle sue ricerche, si concentrò su Zahooran, una delle tawaif più benestanti della città, che viveva con una sola nipote nella casa più grande del quartiere tawaif di Arrah. Nei mesi successivi, la colmò di doni premurosi, complimenti esuberanti ma sinceri e un'eccitante attività amorosa. Quando fu certo della sua completa resa, la colpì una sera in cui Dharmman era assente per partecipare al matrimonio di un parente. Nel corso di una serata di musica e danza, Khanazad Khan preparò il drink di Zahooran con uno speciale veleno a lenta azione.
Addolorata per la perdita della zia che aveva amato come madre, era tormentata dal rimorso per i litigi che avevano rovinato i suoi ultimi giorni con Zahooran. Dharmman sapeva che sua zia aveva voluto solo il meglio per lei. Si incolpava della morte di Zahooran: se non avesse causato alla zia così tanto dolore, forse non avrebbe perso il buon senso per cui era così ammirata. I suoi amici e i suoi sostenitori cercarono di consolare Dharmman, ma con l'anima avvolta dall'angoscia, non riusciva a trovare conforto.
Babu la consolo e riscosse la sua fiducia dlopo di che che le diede una casa piu bella e grand e dove anda re a vicere lasciando la sua casa piena di lutto e brutti ricordi,
inizio a frequentare cosi rajput
Un corpetto aderente a maniche lunghe che si allargava in una gonna ampia che arrivava quasi alle caviglie, tradizionalmente realizzata in tessuto intrecciato con fili d'oro o d'argento e seta. Il suo peso e la sua importanza emblematica venivano spesso paragonati dai tawaif, quasi scherzosamente, all'armatura metallica indossata dai soldati d'élite dell'esercito Moghul. Indossare un pesante peshvaz e danzare con esso con la rapidità di un'aquila e la grazia di un cervo, come se fosse fatto di velo, richiedeva un duro addestramento e pratica.
Quella sera, Dharmman indossava uno splendido peshvaz verde, giallo e oro, abbinato a un pigiama di seta verde. Mentre si truccava i grandi occhi con il kohl, le sue due cameriere personali le acconciarono i folti e lucenti capelli in una lunga treccia, adornandoli con gajra appena realizzati di fiori profumati. Poi, applicarono delicati motivi di alta rosso ai piedi di Dharmman, mentre sceglieva gli ornamenti che completassero il suo abito. Gran parte dei suoi gioielli le erano stati donati da Kunwar Singh; il resto l'aveva ricevuto da ex amanti o acquistato con i propri guadagni. Con i capelli, la fronte, le orecchie, il naso, il collo, la vita, gli avambracci, i polsi, le dita, le caviglie e le dita dei piedi scintillanti di pietre preziose incastonate nell'oro, Dharmman ora si coprì la testa e le drappeggiò le spalle in una lunga sciarpa giallo oro, semi-diafana, tessuta con la seta più pregiata. Fece un ingresso smagliante nella sala delle udienze cerimoniali, dove si stava svolgendo il mehfil, e offrì i suoi saluti all'ospite inglese, che sembrava deliziato dalla sua presenza.
Dharmman Bibi iniziò la sua esibizione con la danza, come di consueto. Ogni volta che completava un cerchio, il visitatore le offriva del denaro, insistendo perché lo prendesse lei stessa. Poi cercava di afferrarle la mano. Dharmman ribolliva di rabbia in silenzio. Questo straniero, si comportava come se lei, la tawaif a capo di Shahabad, fosse un'umile nachaniya, una danzatrice di basso rango, o peggio, una povera prostituta che vendeva sesso ai soldati inglesi.
Le folle di donne, giovani e anziane, con i volti contratti e lo stomaco affamato, arrivavano infatti a rajipur ogni giorno dai villaggi in cerca di lavoro. Per lo più artigiane impoverite dall'arrivo di merci britanniche a basso costo sul mercato indiano, o mogli e figlie di famiglie contadine in miseria a causa degli alti tassi di reddito estorti loro dallo stato coloniale, molte di loro si dedicarono al commercio sessuale in città in rapida espansione come Calcutta.
Tutti sapevano che con le tawaif cortigiane delle lite bisognava comportarsi in modo rispeottoso per cui ci si chiese se questa condotta offensiva fosse un affronto al Raja.
Daharman represse la voglia di prendere a a schiaffi questo impudente straniero che le dava soldi.
Gli inglesi avevano sruttato questa prostituzione per il loro soldati fissando addirittura le tariffe delle donne e mandandole in ospedali per mslattie veneree a curarsi.
Kunwar Singh era in imbarazzo perche gli inglesi lo avrebbero aiutato a fare pressione sullo stato perche gli rimettesse il pesante debito ereditato dal padre che metteva a rischio il suo titolo e il suo regno.
Dhamran vide la rabbia nel volto di kunwar e lo vide stringere i pugni capendo la sua sotuazione e capendo anche che lei dipendeva da lui come eminente tawaif.cosi essendo abituata a perforMare in circostanze negative contInuó a ballare ignorando lo straniero col sorriso sulle labbra ma capi anche che lo straniero avrebbe voluto fare sesso quella stessa notte. La richiesta sarebbe stata per il suo raja intollerabile però.
La situazione era imbarazzantissima e senza uscita .
Un rifiuto avrebbe iondispettito lo straniero che serviva agli affari del raja.
Cosi cercando di far finire veleocemtne il balletto penso a una soluzione di compromesso
fece versare vino in abbondanza allo straniero incoraggiandolo a bere, in poco tempo fu sbronzo e dovette essere aiutato ad essere trasportato a letto dai servi.
Quando ando NEL CAMERINO a svestire il Peshaz chiese alla sua serva che era uguale in altezza e corporatura di andare lei in camera dello straniero fingendosi lei vestita come lei.
Il giorno dopo il.rozzo inglese che non s era accorto di nulla, tutto contento partí e salutó, e il raja fu sollevato dalla imbarazzo. Egli provò un rinnovato rispetto per la sua intelligenza, la sua intraprendenza e, soprattutto, per la sua lealtà nei suoi confronti e per il suo onore. In piedi sulla terrazza, mentre guardava l'inglese andarsene, Dharmman Bibi sentì solo una rabbia fredda e intensa salirle dal ventre e raggiungerle il cuore. Non avrebbe né dimenticato né perdonato il comportamento offensivo dello straniero
Daharman avrebbe voluto una figlia dal raja e avrebbe festeggiato con tutta la comunita il ringraziamento ma non pote averlo.
Una figlia avrebbe ereditato da lei la bellezza, la musica danza ecc.oltreche la capacita di tenere la casa, amministrare gli affari del kotha ecc. l'avrebbe aiutata in vecchiaia quando il raja non ci sarebbe stato piú ecc. Fece pellegrinaggi, visito templi per questo,
ma gli anni passarono ed entró nella mezza etá per cui
decise di adottare una bambina .
Questa era la norma nella comunita tawaif.
3.
La cucina dei Moghul, o Mughlai, è una tradizione culinaria che si è sviluppata nell'India settentrionale durante l'Impero Moghul, influenzata dalla cucina persiana e locale. Questa cucina è caratterizzata da piatti ricchi, salse elaborate, l'uso di spezie aromatiche, e l'adozione del forno tandoor per cucinare carne e pane.
Caratteristiche principali:
• Influenze:
La cucina Mughlai è un mix di cucina persiana, introdotta dai Moghul, e sapori locali indiani.
• Ingredienti:
Utilizza ampiamente carne, come montone e pollo, latte, panna, yogurt, frutta secca, frutta, e una varietà di spezie come zafferano, cardamomo, cannella e noce moscata.
• Tecniche di cottura:
Il forno tandoor è un elemento chiave, usato per preparare kebab, piatti tandoori e pane come il naan.
• Piatti tipici:
Tra i piatti più noti ci sono il biryani (un piatto di riso speziato), il rogan josh (un curry di agnello), il butter chicken, il korma (un piatto a base di carne o verdure in salsa cremosa) e vari tipi di kebab.
• Salse:
Le salse sono un elemento distintivo, spesso a base di panna, pomodoro, yogurt e spezie.
• Pane:
Il naan, il roti e il paratha sono i pani più comuni, spesso cotti nel tandoor.
Esempi di piatti:
• Biryani: Un piatto di riso basmati cotto con carne, spezie e talvolta frutta secca.
• Rogan josh: Un curry di agnello speziato, originario del Kashmir, con una salsa rossa brillante.
• Butter Chicken: Un piatto a base di pollo in salsa cremosa e speziata al burro.
• Kebab: Carne marinata e cotta nel tandoor, come il tikka kebab (pezzi di carne marinati) o il seekh kebab (carne macinata infilzata in spiedini).
• Naan: Pane piatto non lievitato, cotto nel tandoor.
• Paratha: Pane piatto simile al naan, ma spesso più spesso e leggermente fritto.
In sintesi, la cucina dei Moghul offre un'esperienza culinaria ricca di aromi, sapori intensi e tradizioni che si sono evolute nel corso dei secoli, creando un ponte tra la cucina persiana e quella indiana.
....Influenze: La cucina Mughlai era un mix di cucina persiana, introdotta dai Moghul che erano.musulmani, e sapori locali indiani. Ingredienti: Utilizza ampiamente carne, come montone e pollo, latte, panna, yogurt, frutta secca, frutta, e una varietà di spezie come zafferano, cardamomo, cannella e noce moscata. Tecniche di cottura: Il forno tandoor è un elemento chiave, usato per preparare kebab, piatti tandoori e pane come il naan. Piatti tipici: Tra i piatti più noti ci sono il biryani (un piatto di riso speziato), il rogan josh (un curry di agnello), il butter chicken, il korma (un piatto a base di carne o verdure in salsa cremosa) e vari tipi di kebab. Salse: Le salse sono un elemento distintivo, spesso a base di panna, pomodoro, yogurt e spezie. Pane: Il naan, il roti e il paratha sono i pani più comuni, spesso cotti nel tandoor. Esempi di piatti: Biryani: Un piatto di riso basmati cotto con carne, spezie e talvolta frutta secca. Rogan josh: Un curry di agnello speziato, originario del Kashmir, con una salsa rossa brillante. Butter Chicken: Un piatto a base di pollo in salsa cremosa e speziata al burro. Kebab: Carne marinata e cotta nel tandoor, come il tikka kebab (pezzi di carne marinati) o il seekh kebab (carne macinata infilzata in spiedini). Naan: Pane piatto non lievitato, cotto nel tandoor. Paratha: Pane piatto simile al naan, ma spesso più spesso e leggermente fritto.
4.
Le Tawaif erano cortigiane colte e raffinate che facevano parte della società Moghul. Erano esperte di musica, danza ,in particolare il mujra, e letteratura in lingua Urdu. Servivano la nobiltà, contribuendo alla cultura di corte e diventando autorità in materia di galateo.
Le tawaif erano intrattenitrici, ma anche custodi di tradizioni artistiche. Svolsero un ruolo significativo nella conservazione e diffusione delle forme tradizionali di danza e musica, soprattutto durante il declino dell'Impero Moghul nel 1700/ XVIII secolo. La loro influenza si estese alla letteratura e all'etichetta, e divennero figure centrali della cultura della corte Moghul nel nord dell'India, a partire dal 1500/ XVI secolo.
Erano donne istruite, esperte in varie arti e letteratura, in particolare in lingua Urdu.
Servivano la nobiltà, contribuendo alla vita culturale della corte e influenzando l'etichetta.
Erano cantanti, ballerine e interpreti, soprattutto nel mujra, e svolgevano un ruolo importante nella trasmissione delle tradizioni artistiche.
Erano figure centrali nella cultura della corte Moghul, contribuendo alla sua ricchezza e raffinatezza, specialmente durante il periodo di declino dell'impero
La tawaif come si diceva era molto più di un’intrattenitrice: era una custode delle arti, una poetessa del gesto, una sapiente della parola e del silenzio. Nelle corti Mughal e nei salotti aristocratici dell’India precoloniale, la tawaif incarnava l’eleganza e la cultura.
La tawaif era spesso una donna colta, educata sin da giovanissima nelle arti più raffinate: danza classica (kathak), musica vocale (thumri, dadra, ghazal), poesia, recitazione, calligrafia, e perfino diplomazia e conversazione. Era una figura ambivalente: rispettata da principi e intellettuali, ma venne gradualmente marginalizzata con l’arrivo del colonialismo britannico e del condeguente rigido moralismo Vittoriano e ridotta a prostituta.
Gli inglesi non avevano capito niente né gli interessava capire che esisteva una filosofia,un estetica, un erotismo che non avevano nulla a che fare con i principi occidentali essendo prive del senso oscurantista del.peccato tipico del cristianesimo protestante anglicano.
Il suo compito non era semplicemente “intrattenere”, ma creare bellezza.
Si esibiva nei mehfil — serate artistiche intime — dove i presenti si lasciavano incantare dalla danza, dalla musica e dai versi recitati. A volte, diventava anche consigliera politica o musa di poeti e scrittori.
Il suo abbigliamento era uno spettacolo in sé: gharara o sharara in seta grezza, ricamati a mano con specchi, perline o zardozi in filo d’oro. Il dupatta veniva drappeggiato con grazia, profumato con attar di rosa o gelsomino. Indossava gioielli in abbondanza: payal (cavigliere), jhumka (orecchini), kangan (bracciali), maang tikka sulla fronte. I suoi piedi erano tinti di henné e decorati con campanelli che suonavano con ogni passo.
Il repertorio musicale della tawaif era profondo e sensuale, non nel senso fisico, ma nell’anima.
Il ghazal era il suo regno: versi d’amore e desiderio, spesso tragico, cantati con voce struggente.
Le thumri erano delicate, emotive, raccontavano d’amore in modo giocoso o melanconico.
Le dadra erano più leggere, a volte folcloristiche.
Accompagnata da sarangi, tabla, tanpura, la sua voce galleggiava tra silenzi e note, tra attese e sospiri.
Spesso una tawaif non aveva bisogno di dire nulla: bastava un movimento della mano, un occhiata fugace, o un canto sussurrato in raag per far innamorare l’intera stanza.
Una tawaif portava con sé un’eleganza scolpita nel tempo, tra l’arte e il silenzio.
Fisicamente, aveva occhi profondi come inchiostro, sfumati di malinconia e curiosità. Il kajal ne accentuava l’intensità, rendendo ogni sguardo un verso non detto. Le sopracciglia erano arcuate con grazia quasi geometrica, le labbra piene e colorate con una leggera tinta di rosa alla rosa damascena. I suoi capelli, lunghi e spesso intrecciati con fili d’oro o piccoli fiori di champa, incorniciavano un volto simmetrico ma mai banale: c’era sempre una lieve irregolarità, come nei tappeti persiani più pregiati, un difetto voluto per farne un’opera viva.
La pelle era ambrata, vellutata, profumata di attar e farina di riso. Camminava con passo lieve, i piedi nudi tinti di mehndi e adornati da payal d’argento: ogni passo era una nota, ogni gesto una partitura.
Quanto agli abiti… Indossava un gharara di seta color giada antica, ricamato a mano con fili d’oro opaco e minuscoli specchi rotondi. Il pantalone ampio le si apriva come una calligrafia in movimento quando danzava. Il kurti era corto, bordato di perline e motivi floreali, lasciando intravedere i finissimi ornamenti al ventre. Il dupatta — lungo scialle trasparente — era leggero come fumo, bordato di gotta patti, e veniva fissato con grazia sopra la testa o lasciato cadere lungo un braccio come un invito non detto.
I gioielli erano un linguaggio:
un maang tikka con smeraldo che le cadeva sulla fronte,
orecchini jhumka che ondeggiavano come campane,
bracciali tintinnanti ad ogni gesto,
un anello a ogni mano, ognuno dedicato a un raga, a una stagione, a un’amarezza vissuta.
E quando saliva su una piccola pedana per iniziare il mujra, la luce si fermava su di lei, come se sapesse che lì, in quel momento, la bellezza era diventata reale
5.
PERSONAGGI
Noor e Aslam:
Paneer e Poesia" – Aslam è un nome maschile storico diffuso nell’India del Nord, e il paneer è un formaggio fresco molto usato nella cucina tradizionale.
"Noor e Imran:
Biryani d’Amore" –
Il biryani richiama sapori intensi e passione, perfetto per una storia in cui amore e cucina si intrecciano.
"Noor e Salim:
Tra Ghazal e Korma"
"Noor e Salim:
Tra Ghazal e Korma"
– Salim ha un’aura regale, mentre il korma con le sue spezie delicate richiama una sensualità raffinata.
"Noor e Rafiq: Sapori di Sher e Shamiana"
"Noor e Rafiq: Sapori di Sher e Shamiana"
– Rafiq significa “compagno” e il termine “shamiana” evoca le tende delle feste, perfette per un’atmosfera poetica.
Nella regione dello Shekhawati nel Rajasthan, e sono considerate importanti siti storici e culturali la haveli aveva cinque cortili interni chowk, centro della vita familiare e da pozzi di luce e ventilazione con portici e le stanze disposte intorno al cortile. La sua facciata era decorata con affreschi che rappresentavano scene dei Veda induisti, ma anche scene di vita quotidiana e animali, pitture, intagli e incisioni.
Ospitava una famiglia allargata, con spazi separati per uomini e donne, e offriva ombra e frescura
Le tawaif sono esistite da secoli nel subcontinente indiano e uno dei primi riferimenti alla professione è il personaggio Vasantasena del dramma sanscrito Mṛcchakatika del V secolo a.C.
Molte ragazze erano prese in giovane età e formate sia nelle arti dello spettacolo, come mujra, kathak e musica classica indostana, sia nella letteratura, nella poesia ghazal, thumri e dadra, con standard elevati. La formazione delle giovani tawaif comprendeva anche la scrittura e l'enunciazione in urdu, nonché abilità sociali impiegate per coltivare i mecenati e trattenerli, in particolare la complessa etichetta associata al loro mestiere, in cui erano viste come esperte. Una volta che una tirocinante era maturata e possedeva una sufficiente padronanza della danza e del canto, diventava una tawaif, ballerina di alta classe al servizio di ricchi e nobili.
L'introduzione di una tawaif alla professione veniva segnata da una celebrazione, la cosiddetta cerimonia missī, che abitualmente prevedeva l'annerimento inaugurale dei denti.
Si ritiene inoltre che i giovani futuri nababbi venissero inviati dalle tawaif per imparare il tameez e il tehzeeb, che includevano la capacità di riconoscere e apprezzare la buona musica e la letteratura, forse anche praticarla, in particolare l'arte della scrittura ghazal. Divennero anche insegnanti per i figli di famiglie ricche ed élite, che spesso mandavano i loro figli nei kotha in modo che potessero imparare la lingua urdu, la poesia e l'etichetta dalle tawaif. Ai ragazzi veniva detto di sedersi e osservare come una tawaif si comporta nelle sue interazioni. Il contributo delle tawaif alla società proveniva da una tradizione familiare e godeva di una gerarchia. Al livello più alto delle tawaif era affidata la responsabilità di insegnare etichetta e buone maniere ai re e ai giovani principi. Inoltre avevano il compito di familiarizzare i giovani reali con le sfumature più sottili di poesia, musica, danza e letteratura, che nel XVIII secolo erano diventate l'elemento centrale della cultura educata e raffinata dell'India settentrionale.
Il kotha di una tawaif è uno spazio per spettacoli e un guardiano delle arti e della cultura, ed è aperto solo all'élite della città e ai ricchi mecenati. In questi spazi rarefatti, le tawaif componevano poesie, cantavano e ballavano con composizioni musicali dal vivo, oltre a esibirsi nei banchetti, il che richiedeva anni di rigorosa formazione. Le tawaif erano chiamate ad esibirsi anche nelle grandi occasioni come un matrimonio o la nascita di un erede maschio, solitamente cantando e mettendo in scena una storia mitologica o leggendaria. Le tawaif ballavano, cantavano, recitavano poesie e intrattenevano i loro corteggiatori nei mehfils.Il loro scopo principale era intrattenere professionalmente i loro ospiti, mentre il sesso era spesso incidentale e non era assicurato contrattualmente. Le tawaif di alta classe o più popolari potevano spesso scegliere tra i migliori dei loro corteggiatori. Le tawaif inoltre partecipavano alle celebrazioni nei templi durante le festività con esibizioni che erano state tramandate di generazione in generazione. Avevano anche la tradizione di esibirsi al bazar Burhwa Mangal nella primavera successiva al festival di Holi. Tali eventi fornivano loro un'occasione significativa, non solo di ricevere un patrocinio ma anche di mostrare le proprie abilità al pubblico generale, mantenendo così l'accettabilità sociale della loro professione.
I kotha, dove le tawaif spesso vivevano e si esibivano, ospitavano riunioni dell'intellighenzia locale, presiedute principalmente dalla tawaif più anziana. Godevano di influenza su scrittori, giornalisti e poeti. I poeti desideravano ardentemente che una tawaif cantasse le loro opere e chiedevano alle tawaif famose di cantare le loro poesie, in modo da garantire che la poesia venisse ricordata e tramandata di generazione in generazione.Una tawaif aveva un approccio non convenzionale alle relazioni, in cui ci si aspettava che le artiste rimanessero nubili ma potevano avere rapporti con i mecenati. Le tawaif tradizionalmente erano amanti fedeli di mecenati ricchi. Solo una volta terminata una relazione, a causa della morte del loro mecenate o della decisione reciproca di separarsi, una tawaif cercava di entrare in una nuova relazione.
6.
La storia di Noor e Salim
Prologo
Quando Noor Jahan era ancora un’allieva Tawaif (1) il mondo le appariva eccitante e gravido di promesse per il futuro.
La haveli di Churu era viva e sempre affollata di volti, suoni, profumi e racconti: i chiostri risuonavano dei passi leggeri, delle risate sommesse e dei pettegolezzi delle apprendiste dietro le jali traforate, mentre il profumo costante del pane all’anice e del hennè fresco sulle mani delle giovani danzatrici dominava su tutto.
Situata nella regione Shekhawati del Rajasthan, nel Nord ovest dell'India, la haveli dove viveva Noor aveva un cortile interno, vero centro della vita familiare, con portici e stanze disposte intorno al cortile con spazi separati per uomini, donne ed eunuchi. La sua facciata era decorata con affreschi che rappresentavano scene dei Veda induisti, ma anche con scene di vita quotidiana e animali, pitture, intagli e incisioni. Ospitava la famiglia allargata delle Tawaif dirette da Begum Sahira.
Noor, che aveva allora quattordici anni, le trecce lunghe e lucide come seta nera, imparò il linguaggio dei gesti e dei sapori ancor prima di quello delle parole.
La sua Ustani, Begum Sahira, sedeva su un cuscino viola scuro e insegnava con la voce bassa e il tamburo in grembo:
“Ogni mano racconta un verso, ma una vera tawaif impara prima ad ascoltare la poesia dell’acqua che bolle.”
Fu nella cucina (2) infatti che Noor cominciò davvero ad apprendere l'antica arte. La sera, mentre le altre allieve dormivano, lei aiutava Amma Bibi a temperare il latte per il firni. Osservava la donna mescolare con lentezza rituale, cantilenando un ghazal antico:
Un momento e scivoli nel cuore come un profumo
come lo zafferano che si scioglie nel latte
silenzioso, ma penetrante.
In quelle notti Noor imparò anche il senso dell’attesa, il linguaggio delle spezie e il significato del ritmo, anche senza tamburi.
Quando il sole declinava e i minareti cominciavano a tingersi d’oro, Noor aiutava a preparare la cena. Non era solo un pasto: era una preghiera silenziosa, un rito. Gli venne insegnato che ogni piatto era un versetto e ogni fragranza un gesto d’amore in attesa di un destinatario.
Nel battito del cuore
vive il profumo dello zafferano
quella notte, quell’istante, l’incanto dei sogni.
1
Nella regione dello Shekhawati nel Rajasthan, e sono considerate importanti siti storici e culturali la haveli aveva cinque cortili interni chowk, centro della vita familiare e da pozzi di luce e ventilazione con portici e le stanze disposte intorno al cortile. La sua facciata era decorata con affreschi che rappresentavano scene dei Veda induisti, ma anche scene di vita quotidiana e animali, pitture, intagli e incisioni.
Ospitava una famiglia allargata, con spazi separati per uomini e donne, e offriva ombra e frescura
Le tawaif sono esistite da secoli nel subcontinente indiano e uno dei primi riferimenti alla professione è il personaggio Vasantasena del dramma sanscrito Mṛcchakatika del V secolo a.C.
Molte ragazze erano prese in giovane età e formate sia nelle arti dello spettacolo, come mujra, kathak e musica classica indostana, sia nella letteratura, nella poesia ghazal, thumri e dadra, con standard elevati. La formazione delle giovani tawaif comprendeva anche la scrittura e l'enunciazione in urdu, nonché abilità sociali impiegate per coltivare i mecenati e trattenerli, in particolare la complessa etichetta associata al loro mestiere, in cui erano viste come esperte. Una volta che una tirocinante era maturata e possedeva una sufficiente padronanza della danza e del canto, diventava una tawaif, ballerina di alta classe al servizio di ricchi e nobili.
L'introduzione di una tawaif alla professione veniva segnata da una celebrazione, la cosiddetta cerimonia missī, che abitualmente prevedeva l'annerimento inaugurale dei denti.
Si ritiene inoltre che i giovani futuri nababbi venissero inviati dalle tawaif per imparare il tameez e il tehzeeb, che includevano la capacità di riconoscere e apprezzare la buona musica e la letteratura, forse anche praticarla, in particolare l'arte della scrittura ghazal. Divennero anche insegnanti per i figli di famiglie ricche ed élite, che spesso mandavano i loro figli nei kotha in modo che potessero imparare la lingua urdu, la poesia e l'etichetta dalle tawaif. Ai ragazzi veniva detto di sedersi e osservare come una tawaif si comporta nelle sue interazioni. Il contributo delle tawaif alla società proveniva da una tradizione familiare e godeva di una gerarchia. Al livello più alto delle tawaif era affidata la responsabilità di insegnare etichetta e buone maniere ai re e ai giovani principi. Inoltre avevano il compito di familiarizzare i giovani reali con le sfumature più sottili di poesia, musica, danza e letteratura, che nel XVIII secolo erano diventate l'elemento centrale della cultura educata e raffinata dell'India settentrionale.
Il kotha di una tawaif è uno spazio per spettacoli e un guardiano delle arti e della cultura, ed è aperto solo all'élite della città e ai ricchi mecenati. In questi spazi rarefatti, le tawaif componevano poesie, cantavano e ballavano con composizioni musicali dal vivo, oltre a esibirsi nei banchetti, il che richiedeva anni di rigorosa formazione. Le tawaif erano chiamate ad esibirsi anche nelle grandi occasioni come un matrimonio o la nascita di un erede maschio, solitamente cantando e mettendo in scena una storia mitologica o leggendaria. Le tawaif ballavano, cantavano, recitavano poesie e intrattenevano i loro corteggiatori nei mehfils.Il loro scopo principale era intrattenere professionalmente i loro ospiti, mentre il sesso era spesso incidentale e non era assicurato contrattualmente. Le tawaif di alta classe o più popolari potevano spesso scegliere tra i migliori dei loro corteggiatori. Le tawaif inoltre partecipavano alle celebrazioni nei templi durante le festività con esibizioni che erano state tramandate di generazione in generazione. Avevano anche la tradizione di esibirsi al bazar Burhwa Mangal nella primavera successiva al festival di Holi. Tali eventi fornivano loro un'occasione significativa, non solo di ricevere un patrocinio ma anche di mostrare le proprie abilità al pubblico generale, mantenendo così l'accettabilità sociale della loro professione.
I kotha, dove le tawaif spesso vivevano e si esibivano, ospitavano riunioni dell'intellighenzia locale, presiedute principalmente dalla tawaif più anziana. Godevano di influenza su scrittori, giornalisti e poeti. I poeti desideravano ardentemente che una tawaif cantasse le loro opere e chiedevano alle tawaif famose di cantare le loro poesie, in modo da garantire che la poesia venisse ricordata e tramandata di generazione in generazione.Una tawaif aveva un approccio non convenzionale alle relazioni, in cui ci si aspettava che le artiste rimanessero nubili ma potevano avere rapporti con i mecenati. Le tawaif tradizionalmente erano amanti fedeli di mecenati ricchi. Solo una volta terminata una relazione, a causa della morte del loro mecenate o della decisione reciproca di separarsi, una tawaif cercava di entrare in una nuova relazione.
6.
La storia di Noor e Salim
Prologo
Quando Noor Jahan era ancora un’allieva Tawaif (1) il mondo le appariva eccitante e gravido di promesse per il futuro.
La haveli di Churu era viva e sempre affollata di volti, suoni, profumi e racconti: i chiostri risuonavano dei passi leggeri, delle risate sommesse e dei pettegolezzi delle apprendiste dietro le jali traforate, mentre il profumo costante del pane all’anice e del hennè fresco sulle mani delle giovani danzatrici dominava su tutto.
Situata nella regione Shekhawati del Rajasthan, nel Nord ovest dell'India, la haveli dove viveva Noor aveva un cortile interno, vero centro della vita familiare, con portici e stanze disposte intorno al cortile con spazi separati per uomini, donne ed eunuchi. La sua facciata era decorata con affreschi che rappresentavano scene dei Veda induisti, ma anche con scene di vita quotidiana e animali, pitture, intagli e incisioni. Ospitava la famiglia allargata delle Tawaif dirette da Begum Sahira.
Noor, che aveva allora quattordici anni, le trecce lunghe e lucide come seta nera, imparò il linguaggio dei gesti e dei sapori ancor prima di quello delle parole.
La sua Ustani, Begum Sahira, sedeva su un cuscino viola scuro e insegnava con la voce bassa e il tamburo in grembo:
“Ogni mano racconta un verso, ma una vera tawaif impara prima ad ascoltare la poesia dell’acqua che bolle.”
Fu nella cucina (2) infatti che Noor cominciò davvero ad apprendere l'antica arte. La sera, mentre le altre allieve dormivano, lei aiutava Amma Bibi a temperare il latte per il firni. Osservava la donna mescolare con lentezza rituale, cantilenando un ghazal antico:
Un momento e scivoli nel cuore come un profumo
come lo zafferano che si scioglie nel latte
silenzioso, ma penetrante.
In quelle notti Noor imparò anche il senso dell’attesa, il linguaggio delle spezie e il significato del ritmo, anche senza tamburi.
Quando il sole declinava e i minareti cominciavano a tingersi d’oro, Noor aiutava a preparare la cena. Non era solo un pasto: era una preghiera silenziosa, un rito. Gli venne insegnato che ogni piatto era un versetto e ogni fragranza un gesto d’amore in attesa di un destinatario.
Nel battito del cuore
vive il profumo dello zafferano
quella notte, quell’istante, l’incanto dei sogni.
1
Sotto la pioggia dei monsoni di giugno all'haveli giunse un giorno un giovane uomo di nome Salim. Era scalzo come chi entra in un tempio e aveva gli occhi di chi aveva letto troppo e sorriso troppo poco. Disse che non cercava piacere, ma rifugio e non volle dire da cosa.
Noor aveva appena finito di danzare.
Aveva ancora il kajal sbavato sugli occhi e i piedi impolverati dalla danza del mujra.
Lo guardò come fosse un presagio incerto, ma inevitabile.
Accolto da Amma Bibi con uno sharbat di karkadè freddo, Salim restò per ore seduto vicino alla porta, guardandosi intorno e osservando rapito la danza delle ombre che le tende gonfiate dal vento proiettavano sul pavimento e le pareti del chiostro. Poi d'un tratto si svegliò come da una transe e disse:
“È vero che qui si cucina la poesia ?”
Noor guardò Amma Bibi e scoppiò a ridere.
Amma allora chiamò a sè una serva e le sussurrò alcune parole all'orecchio. La serva allegramente complice volò in cucina, si affaccendò per un po' e poi con il dorso del cucchiaio fece tintinnare un bicchiere per segnalare che aveva finito. Uscì nel chiostro, si inchinò all'ospite e con un sorriso malizioso a occhi bassi gli porse una ciotola di rame. Fu così che Salim assaggiò il suo primo yakhni allo zafferano. Dopo che ebbe finito Noor si sedette a fianco a lui, si presentò e gli chiese:
"Sai quando un piatto è pronto?"
Lui scosse la testa.
“Quando si smette di parlare” gli rispose.
2
Nei mesi seguenti, Salim, apprezzato dalle Ustani della casa per i Ghazal che scriveva, venne definitivamente ospitato e assunto come poeta.
Dalla cucina Noor lo osservava che scriveva nel cortile interno, tra vasi di basilico e rose appassite: sedeva con le ginocchia piegate, il quaderno sulle cosce, e la penna ferma a mezz’aria, come se attendesse una nota per continuare.
La mattina, mentre le prime luci del sole baciavano le pareti di calce, Noor lo chiamò tra le tende leggere della cucina e gli chiese:
“Hai mai arrostito il masoor con le mani?”
“No”
“Allora vuol dire non hai mai scritto davvero un ghazal.”
Lui restò di sasso, ma obbedì.
Insieme, tostarono le lenticchie rosse, mentre il burro sfrigolava. Noor aggiunse aglio pestato con zenzero fresco, e gli spiegò:
“Ogni strofa deve avere un’esplosione. Questo, è l’aglio. Poi un pizzico di fieno greco. E questa è la nostalgia.”
Lui la guardava, incantato.
“E tu, in che spezia ti nascondi?”le chiese Salim.
Lei sorrise senza rispondere e versò acqua calda nella pentola.
Quando fu prontò tutte le tawaif si sedettero su grandi cuscini e pranzarono insieme a Salim, Noor, alle Amma e alle Ustani sul dastarkhwan steso sul pavimento.
Il dhal era denso e vellutato, il naan fragrante. Ma fu la lentezza del pasto a stregar più di tutto Salim: quell’attesa tra un boccone e l’altro, colma di occhi bassi e sorrisi sospesi.
La sera stessa ci fu l'esordio del primo recital di Ghazal di Salim.
Salim non aveva il fascino scolpito dei poemi epici, ma un’irregolarità magnetica, come un verso fuori metrica che però non si poteva fare a meno di rileggere. Aveva occhi scuri, infossati, con cerchi tenui sotto le ciglia, come se portasse sulle palpebre notti insonni passate tra libri e rimpianti. Lo sguardo era assorto, sembrava sempre rivolto a qualcosa che stava per accadere o che era appena sfuggito. La sua pelle era color ambra scurita dal sole, i lineamenti marcati ma non duri — c’era dolcezza nella bocca, come se avesse sorriso poco, ma con sincerità. Una ciocca ribelle gli ricadeva sempre sulla fronte, sfiorata con le dita quando pensava o taceva troppo a lungo. Era alto, ma con la postura leggermente curva, non di vergogna, ma di ascolto.
Nei suoi abiti c’era una semplicità curata. Indossava un kurta di lino grezzo color sabbia, con il colletto stropicciato e i bottoni lasciati aperti fino al petto, dove un medaglione antico pendeva da un filo di cuoio. Il pyjama era largo, bianco panna, spesso impolverato ai bordi da camminate tra i vicoli. Ai piedi, sandali in cuoio o, più spesso, niente. Non amava ornarsi, tranne forse per un anello d’argento al mignolo, inciso all’interno con un verso che nessuno era mai riuscito a leggere.
Quando recitò i suoi ghazal, si avvolse in uno scialle lungo color indaco, sfilacciato alle estremità, che portava sulla spalla sinistra. Quel semplice gesto bastò a dare alla sua presenza una solennità poetica. Il suo fascino non era immediato ma di una lentezza magnetica, come il profumo del legno di sandalo che si insinua solo dopo qualche respiro.
3
Una Tawaif era una custode delle arti, una poetessa del gesto, una sapiente della parola e del silenzio. Nella corte Moghul e nei salotti aristocratici incarnava l’eleganza e la cultura. Era una giovane donna già colta, educata sin da piccola nelle arti più raffinate, la danza classica kathak, il canto thumri, dadra, la poesia ghazal, la recitazione, la calligrafia, e perfino la diplomazia e la conversazione. Era rispettata da principi e intellettuali. Il suo compito non era semplicemente “intrattenere”, ma creare bellezza. Si esibiva con le altre Tawaif dell'haveli in serate artistiche intime, mehfil, dove gli invitati si lasciavano incantare dalla danza, dalla musica e dai versi recitati.
Il repertorio musicale di Noor era profondo e sensuale. Il ghazal era il suo regno: versi d’amore e desiderio, spesso tragico, cantati con voce struggente. Le thumri erano delicate, emotive, raccontavano d’amore in modo giocoso o melanconico. Le dadra erano più leggere, a volte folcloristiche. Accompagnata da sarangi, tabla, tanpura, la sua voce galleggiava tra silenzi e note, tra attese e sospiri. Spesso non aveva bisogno di dire nulla: bastava un movimento della mano, un occhiata fugace, o un canto sussurrato in raga per far innamorare l’intera stanza.
Noor portava con sé un’eleganza scolpita nel tempo, tra l’arte e il silenzio. Fisicamente, aveva occhi profondi come inchiostro, sfumati di malinconia e curiosità. Il kajal ne accentuava l’intensità, rendendo ogni sguardo un verso non detto. Le sopracciglia erano arcuate con grazia quasi geometrica, le labbra piene e colorate con una leggera tinta di rosa damascena. I suoi capelli, lunghi e spesso intrecciati con fili d’oro o piccoli fiori di champa, incorniciavano un volto simmetrico ma mai banale: c’era sempre una lieve irregolarità, come nei tappeti persiani più pregiati, un difetto voluto per farne un’opera viva. La pelle era ambrata, vellutata, profumata di attar e farina di riso. Camminava con passo lieve, i piedi nudi tinti di hennè e adornati da payal d’argento: ogni passo era una nota, ogni gesto una partitura.
Indossava un gharara di seta color giada antica, ricamato a mano con fili d’oro opaco e minuscoli specchi rotondi. Il pantalone ampio le si apriva come una calligrafia in movimento quando danzava. Il kurti era corto, bordato di perline e motivi floreali, lasciando intravedere i finissimi ornamenti al ventre. Il dupatta, lungo scialle trasparente, era leggero come fumo, bordato di gotta patti,profumato con attar di rosa o gelsomino, veniva fissato con grazia sopra la testa o lasciato cadere lungo un braccio come un invito non detto. I gioielli erano un altro linguaggio: un maang tikka con smeraldo che le cadeva sulla fronte, orecchini jhumka che ondeggiavano come campane, kangan bracciali tintinnanti ad ogni gesto, un anello a ogni mano, ognuno dedicato a un raga, a una stagione, a un’amarezza vissuta. I suoi piedi erano tinti di henné e decorati con campanelli che suonavano con ogni passo.
La casa era immersa in un silenzio sospeso, come se trattenesse il fiato. Dal chiostro arrivavano solo sussurri e lo strusciare delle vesti: il pubblico iniziava a prendere posto tra tappeti stesi e lampade a olio.
Nel boudoir, Noor sedeva immobile su uno sgabello basso, con la schiena dritta e gli occhi socchiusi. Due ragazze le intrecciavano i capelli con fiori di champa, infilando minuscole spille d’oro tra le ciocche. Il profumo dei fiori si mischiava a quello dell’attar di mogra che una terza servitrice le tamponava dietro le orecchie e all’incavo del polso. Un vassoio d’ottone le fu portato davanti: sopra, una tazza di acqua calda con miele e cardamomo. Noor la prese a due mani, assaporando un sorso lento. Poi inspirò profondamente. La voce si riscaldava così.
Sotto le sue vesti color rame, il cuore batteva un taal discreto. Poi, un attimo prima che il tamburo chiamasse l’inizio, Noor posò una mano sul petto, chiuse gli occhi e sussurrò fra sè :
"Quando le parole tacciono
allora è il corpo a parlare."
Salim era lì, tra il pubblico. Ma non guardava come gli altri. Scriveva. Con uno sguardo che non consumava, ma raccoglieva: ogni gesto, ogni pausa, ogni vibrazione del suo dupatta nell’aria.
Noor cominciò a danzare su una thumri antica, con passi leggeri come battiti d’ali. Le sue mani raccontarono la storia di un amore lontano, le dita sfiorarono l’assenza come si soffia il vapore sopra il chai.
Salim scrisse senza guardare il foglio. Le parole gli uscivano come lacrime trattenute troppo a lungo.
Il tempo si è fatto lento
nel tuo giro.
Il tuo profumo
ha trasformato
la mia penna in arcobaleno.
A un tratto, gli occhi di Noor lo cercarono. E si trovarono. Lei lo vide. E danzò con uno scarto: un passo in più. Una pausa più lunga. Come se danzasse per lui, con lui.
Quando la mehfil della sera finì nell’aria della haveli galleggiavano ancora frammenti di tabla e versi sospesi, come incenso che non vuole morire. Il pubblico se n’era andato piano, lasciando tappeti stropicciati, bicchieri vuoti, e un silenzio denso, quasi rispettoso.
Noor cercò Salim ma non lo trovò.
In cucina, la fiamma bassa scaldava un curry di lenticchie rosse, infuso di cumino e foglie di curry fritte nel ghee. Il pane era stato impastato fresco, cotto poco prima sulla tawa ancora caldo, con le bolle croccanti.
Nell’ultima stanza a sinistra del cortile, Noor ancora avvolta nel suo dupatta stropicciato e profumato di danza si era sciolta i capelli. Le mani erano ancora profumate di rosa e sudore. Tolse un bracciale, poi l’altro. Si versò da sola un bicchiere d’acqua con semi di finocchio e si sedette. Poi su un cuscino vide un foglio piegato.
Lo aprì con attenzione, come si apre una scatola fragile. Le parole erano scritte in inchiostro nero, inclinate verso destra, come se spingessero per uscire dalla pagina. Era un ghazal.
Nella tua danza
hai trattenuto il mio tempo spezzato
nel tuo respiro
dimora il mio pensiero perduto
Lo lesse lentamente. Una volta. Poi un’altra, più piano.
Spezzò un pezzo di naan, lo intinse nel curry fumante. con una lentezza sacra. Mentre masticava, senza fretta, chiuse gli occhi pensando al ghazal e le sembrò di sentirlo sul suo palato. Una goccia di ghee le scivolò sul polso, calda e lucida. La commosse il fatto che finalmente qualcuno avesse capito che anche cucinare era una forma di poesia. E danzare una forma di preghiera.
4
Nella quiete del mattino dopo, la cucina sembrava un santuario di suoni leggeri: il tintinnio delle spezie nei barattoli di ottone, il fruscio del naan che lievita, il borbottare del tè sulla stufa.
Noor portava i capelli ancora sciolti, le dita lievemente ingiallite dal curcuma del giorno prima.
Davanti a sé dispose il Latte intero, caldo ma non bollente, lo Zafferano, lasciato in infusione in una ciotolina bianca, il Riso basmati, lavato finché l'acqua non fosse limpida come un pensiero chiarito. Una manciata di pistacchi tritati non troppo fini. E zucchero, quanto bastava a dare dolcezza. Prese una casseruola e cominciò a mescolare. Il riso assorbiva il latte lentamente. Lo zafferano si sciolse, tingendo tutto di un giallo lunare. L’aroma salì, sottile e vellutato, come certe emozioni che arrivano senza bussare. Quando il kheer fu pronto, lo versò in due ciotole. Una, la lasciò fumare sul bancone. L’altra, la sua la portò con sé sulla terrazza, all’aria del mattino. Spezzò il primo boccone di naan, lo intinse piano nel riso dolce e cremoso, e pensò:
Quello che non ha detto oggi
è stato cucinato.
Lascialo aspettare
finché non sarà lui
a cucinare per lei.
5
Nei giorni successivi, Salim passò spesso davanti alla cucina, fingendo disinteresse mentre il profumo del cardamomo e del burro chiarificato lo colpiva come una poesia .
Noor non lo chiamava, non lo guardava nemmeno. Ma lasciava la porta socchiusa.
Lui cominciò ad annotare le emozioni delle spezie nei suoi quaderni: “amchoor = attesa acerba”, “cannella = desiderio trattenuto”, “anice = promessa dolceamara”.
Si rese conto però che le parole non bastavano più: doveva rispondere con il fuoco e con le mani.
Cosicchè un pomeriggio si presentò in cucina.
Noor era uscita.
Le servitrici lo guardarono stupite, poi capirono. Una di loro gli porse un grembiule.
Non disse nulla, ma lo legò attorno a lui come un rito.
Scelse di fare il sheer khurma, un dolce dell’Eid, anche se non era festa. Mise in ammollo datteri e uvetta in acqua di rosa. Tostò i vermicelli nel ghee finché non divennero dorati. Aggiunse latte, zucchero lentamente, come si versa fiducia in una storia che si vuole ancora scrivere. Poi arrivò lo zafferano. Aprì la bustina e inspirò.
Quando Noor tornò, lo trovò lì, nel cuore della cucina, con il cucchiaio in mano.
Non disse niente. Lui le porse una ciotola. Calda. Densa. Fragile come la sua voce quando disse:
“Oggi non ho un ghazal. Ho questo.”
Noor prese un cucchiaino. Assaggiò. E chiuse gli occhi.
Nessuno parlò. Non c’era bisogno.
Perché anche l’amore si serve caldo e si ascolta col palato.
La mattina dopo, la luce filtrava tra le tende leggere. Noor aprì il suo diario rilegato in pelle scura. Sfogliò lentamente, fino a una pagina vuota, tranne che per un piccolo fiore di basilico secco incollato nell’angolo. Prese la penna e, senza pensarci troppo, scrisse con una grafia obliqua :
"Ieri qualcuno
ha cucinato per me
senza chiedere nulla in cambio.
Non ha misurato spezie:
ha misurato silenzi.
E mi ha servito non un piatto,
ma una possibilità.
Ora so:
anche un uomo può preparare un ghazal a fuoco lento."
Sotto, più piccolo, aggiunse:
A volte le parole non cuociono , il sapore si sente solo con gli occhi.
Poi chiuse il diario e lo lasciò accanto a una ciotola d’argilla vuota, dove prima c’era lo sheer khurma.
6
Il giorno dopo Noor decise di preparare il Biriyani, non quello delle feste: quello delle sere intime.
Accese il fuoco appena prima del tramonto. Lavò il riso basmati tre volte, con lentezza. Scelse i semi di cumino uno a uno, come se ognuno fosse un verso antico. Nella padella mise burro chiarificato, chiodi di garofano, un bastoncino di cannella spezzato tra le dita, poi cipolla tagliata sottile. Aggiunse patate fritte, un po’ di yogurt montato a mano, coriandolo tritato fine, zafferano sciolto nel latte tiepido e versato a spirale, come il tempo che gira su se stesso quando si aspetta qualcuno. Quando i profumi si fecero profondi, sigillò la casseruola col pane.
Salim arrivò, varcando la cucina in silenzio.
Lei non parlò ma gli porse il piatto.
Si sedettero a terra, come nelle prime sere senza parlare. Ogni boccone era già una sillaba, ogni sorriso trattenuto una strofa incompiuta. Poi si spense la lampada, e tutto ciò che restò fu il profumo del biriyani. E il rumore lieve di due cucchiaini.
7
Alcuni giorni dopo Noor era seduta su un gradino in cucina, le ginocchia raccolte al petto, mentre tra le mani sfogliava una vecchia raccolta di ghazal. La luce cadeva sulle parole in urdu come rugiada su petali antichi. Dietro di lei, i fornelli tacevano.
Fu Salim a spezzare il silenzio.
Entrò portando un piccolo sacchetto di juta. Lo aprì. Dentro c’erano limoni verdi, foglie di menta, uno zenzero ancora con la terra addosso.
“Oggi posso avere il permesso di cucinare io?” chiese .
Noor fece un cenno di fiducia.
Salim allora iniziò a preparare un chutney. Tritava con lentezza, mescolando senza leggere nessun appunto: una parte asprezza, due parti desiderio, un soffio di chili per tutto ciò che non aveva osato dire. Noor osservava, in silenzio. Lo vedeva cercare il punto esatto di ogni sapore. Quando finì, versò il chutney in una piccola ciotola di terracotta e la posò davanti a lei.
“Non è perfetto,” disse. “Ma somiglia a me quando penso a te.”
Noor lo guardò. Poi intinse un dito, assaggiò appena. Chiuse gli occhi e disse :
Alcuni sapori non si assaggiano con la lingua, ma col cuore.
8
Le mani erano il primo capitolo di una Tawaif.
Dall’interno dei polsi fino alle punte delle dita, l’henné disegnava vortici di paisley, fiori aperti e versi in miniatura nascosti tra i rami. Ogni dito sembrava una strofa, ogni palmo una pagina di un diario privato. Sul centro della mano destra, un piccolo disegno ritraeva un paio di occhi socchiusi, forse i suoi, forse no. Le braccia salivano fino ai gomiti, ornate da arabeschi sottilissimi che imitavano la filigrana dei gioielli, ma fatti solo di pigmento e pazienza. Intorno all’avambraccio sinistro, una linea più scura formava un bracciale di parole: non lettere visibili, ma segni curvi che sembravano pensieri sussurrati a bassa voce. I piedi, tinti fino alle caviglie, portavano storie differenti: sotto il tallone destro, una luna calante; sul dorso del piede sinistro, un piccolo fiore di champa, lo stesso che portava tra i capelli. Le dita dei piedi, decorate con spirali e punteggiature, tintinnavano lievemente per via delle payal, le cavigliere d’argento, che rispondevano ad ogni passo con un suono leggero.
La tinta dell’henné era scura, profonda, a dimostrazione che era stata applicata con amore o, come diceva Amma Bibi, “più il cuore batte per qualcuno, più l’henné si fissa nel sangue.”
E quando danzava, i disegni prendevano vita: il fiore si apriva con le dita, la luna tremava sul tallone, i versi sembravano completarsi.
La sala era silenziosa quella sera. L’aria vibrava come pelle sfiorata da un sussurro. I cuscini di velluto erano vuoti, la luce tremolava sulle pareti color ambra, e al centro, Noor faceva le prove. Scalza, con i piedi decorati di henné come mappa segreta di un mondo antico, salì sulla pedana. Le payal alle caviglie tintinnarono, ma piano , come monete offerte al silenzio. Alzò le mani. Le palme, ornate di spirali e fiori, si aprivano verso il cielo. Le dita raccontavano: l’inizio dell’attesa, l’incontro, la bruciatura della separazione.
Ogni gesto portava con sé un frammento di memoria, e ogni movimento faceva risuonare l’henné come scrittura viva. Sul dorso delle mani, i disegni si intrecciavano alla luce: sembravano petali che si muovevano a tempo con il cuore, o versi antichi che danzavano da soli. Le braccia si sollevavano come onde, portando con sé il sapore del curry speziato, della malinconia morbida, dei giorni in cui si ama con timidezza. Quando girava su se stessa, la luna disegnata sul tallone destro tremolava con grazia, come se avesse sentito un nome sussurrato nella notte. Il fiore sul piede sinistro sembrava sbocciare ad ogni passo. I polsi si piegavano, e con loro, i disegni sembravano scrivere nell’aria lettere in una lingua che solo chi amava poteva comprendere.
Al termine, Noor si fermò.
Le mani aperte, il respiro lento. Il sudore si mescolava all’attar sulla pelle, e l’henné ormai leggermente sbavato, sembrava ancora più vero. Non decorazione, ma traccia.
Poi abbassò le mani. E nel silenzio, anche il suo corpo tacque.
9
La Mehfit di quella sera iniziò con un raga del tramonto, il Raga Yaman, suonato sulla sarangi o sul sitar. Le note fluivano come acqua profumata che scivola sul marmo, e aprivano lo spazio interiore dove poi Noor danzava.
Yaman era scelto non solo per la sua bellezza, ma perché evocava shringar rasa, desiderio, amore che si prepara, contemplazione amorosa prima che il corpo parli col suo linguaggio.
Quando lei prese posizione per il mujra, gli strumentisti, maestri silenziosi, intonarono il thumri in lingua Braj e Awadhi.
"Mio padre,
la mia casa natale
si allontana da me"
Era una thumri resa celebre da Wajid Ali Shah, re, ma anche compositore e mecenate della cultura tawaif.
Noor la danzava con gesti teneri e malinconici, le mani che si separano come chi parte, il volto che sorride mentre le lacrime si raccolgono alle ciglia.
Tra i pezzi più struggenti poi vi furono esecuzioni vocali di ghazal di poeti urdu come Mirza Ghalib, Faiz Ahmad Faiz e Jigar Moradabadi.
I musicisti usavano la tabla non solo per il ritmo, ma come controcanto emotivo: ogni tihai, frase ripetuta tre volte che chiudeva la sezione, si davano un colpo al petto, come fosse una pausa, una parola non detta.
Poi passarono ai dadra, composizioni più leggere, con testo affettuoso o malizioso, suonate in cicli ritmici di sei battute. Noor li usava per far sorridere il pubblico e Salim prendeva appunti di nascosto, ogni volta che una frase sembrava alludere a qualcosa tra loro due.
Alla fine quando la notte si fece intima, restò solo il tanpura, che vibrava come un respiro lungo. Noor smise di danzare e si mise a camminare lenta tra il pubblico quasi addormentato, recitando a bassa voce :
Né strumento né melodia: solo un raga di silenzio.
In quei momenti, nessuno osi interrompere.
Nemmeno la notte.
Non fu un maestro a insegnarmi questa arte.
Fu il palato.
Quando era ancora un’allieva, Noor aveva imparato i raga non seduta davanti al tanpura, ma in cucina, accanto ad Amma Bibi. Ogni pomeriggio, mentre le altre bambine battevano le mani sul ritmo, lei pestava semi di coriandolo e ascoltava la vecchia donna cantilenare sottovoce.
“Il Raga Bhairavi,” diceva Amma, “sa di acqua di rose versata troppo tardi: dolce, ma con l’amaro dell’addio.”
Noor chiudeva gli occhi e assaggiava il Firni appena tolto dal fuoco. Lo zucchero le si fermava sul retro della lingua, mentre l’aroma del cardamomo le saliva al naso.
Poi ascoltava: il raga Bhairavi arrivava come una nostalgia, come latte versato su lettere mai spedite.
Un giorno chiese:
“E il Raga Malkauns?”
Amma le porse un cucchiaino di chutney di tamarindo scuro e disse :
“Questo”
La bocca di Noor si strinse. Era acido, misterioso, ricco come un amore maturo e pieno di ombre.
Poi, con gli anni, cominciò a riconoscerli tutti:
Il Raga Desh, come una lassi fredda al sale, bevuta in una sera d’estate: gioioso, ma asciutto. Il Raga Todi , come fieno greco nel burro fuso: amaro, denso, profondamente intimo. Il Raga Yaman, lo imparò gustando un cucchiaio di latte allo zafferano che sapeva di attesa paziente.
Così, mentre i suoi compagni memorizzavano scale e sequenze, Noor imparò a sentire la musica sulla lingua, non solo nelle orecchie. Per questo, anni dopo, per lei nessun raga fu mai solo suono ma un sapore che si scioglieva nel gesto.
10
Era una notte che profumava di vetiver e vento caldo, con i lampioni ad olio che tremolavano come palpebre stanche.
Nella haveli, la mehfil era pronta, ma diversa dalle altre: quella sera non danzava Noor, né cantava una tawaif. C'era silenzio, attesa.
E il tappeto al centro della sala era vuoto.
Poi entrò Salim da solo e vi si sedette.
Indossava il suo kurta semplice, lo scialle indaco stinto e lo sguardo umile.
Nelle sue mani c’era un taccuino. Lo aprì e senza nessuna introduzione e nessun saluto, recitò il primpo Ghazal a occhi bassi:
Il tuo silenzio
fu l’inizio della mia lingua.
Anche senza il tuo tocco
il mio amore fu completo.
Gli occhi del pubblico si sciolsero piano nella penombra.
Noor, seduta tra le tende leggere, lo osservava. Non portava trucco, né kajal, né payal alle caviglie. Solo un’ombra di sorriso sulle labbra nude.
Seguirono tanti altri ghazal su un sottofondo di tanpura.
Quando il recital giunse alla fine , Salim si fermò, chiuse il quaderno e guardando Noor, fra il pubblico, negli occhi a lungo, disse :
“Tutti pensano
che il poeta reciti per essere amato.
Io no. Io recito perché tu abbia uno specchio
dove vedere ciò che sei diventata per me.”
Allora Noor si alzò, a piedi nudi camminò sul tappeto, lentamente, il passo segnato solo dal suono lontano del tanpura. Si inginocchiò accanto a lui e disse:
"Oggi sei il mio raga silenzioso
quello che suona nel cuore
senza note, per sempre".
11
Nella penombra dorata della cucina, Noor si muoveva quella sera con la lentezza rituale che somiglia alla concentrazione dei musicisti prima del primo raga.
Quella sera era diversa: non cucinava per nutrire, ma per svegliare il desiderio.
Accese una candela profumata al legno di sandalo, e tirò fuori una scatola intagliata che custodiva gli ingredienti segreti tramandati dalle tawaif più antiche, come un grimorio sensuale nascosto tra i barattoli.
Cominciò con le mandorle, ammollate per ore, poi pestate nel mortaio insieme a pistacchi e semi di papavero bianco per scaldare il sangue, come diceva Amma Bibi, e rendere docile la mente ai desideri.
Fece poi scaldare il latte intero con fili di zafferano, miele di fiori selvatici e un pizzico di noce moscata. Lo mescolava piano, con un cucchiaio di legno. Aggiunse qualche goccia d’olio essenziale di rosa damascena, usato una volta dalle regine di Awadh prima degli incontri più attesi. Il profumo si diffuse lento, penetrante, come una poesia che sa già a chi è destinata. Mise da parte il latte speziato, e iniziò a preparare il curry di gamberi al latte di cocco, con semi di fieno greco e pasta di tamarindo. Una combinazione misteriosa dolce, ma affilata, come lo sguardo di chi non parla ma vuole essere ascoltata. Nel piatto finale, versò anche una salsa a base di datteri, semi di coriandolo e polvere di petali di rosa essiccati. Uno sciroppo lento, rosso ambrato, che tremolava nel cucchiaio come un desiderio che ancora non osa.
Quando Salim arrivò, vide le ciotole ornate di foglie d’argento con i cibi caldi ma non bollenti, come i sogni che si vogliono ricordare.
Noor non disse nulla. Gli porse il piatto con un gesto del polso, e uno sguardo appena inclinato. E sulla tovaglietta, una frase scritta con un rametto di zafferano:
A volte
per svegliare il corpo
bisogna prima accendere il cuore.
Noor aveva imparato quelle ricette proibite come si imparano i segreti di un corpo: ascoltando.lo. Fu Amma Bibi, la vecchia cuoca della haveli, a piantarle i primi semi, non con spiegazioni, ma con sguardi, silenzi e gesti millimetrici. Ma fu solo entrando nella dispensa nascosta dietro il cortile delle magnolie, che Noor scoprì la vera alchimia. Lì, dentro barattoli opachi e vasi etichettati solo in calligrafia urdu ormai svanita, c’erano polveri e resine, miele nero e noci immersi nel brandy, semi dimenticati e rose essiccate all’ombra.
Ogni ingrediente aveva un’origine segreta: qualche tawaif l’aveva portato da Lucknow, un’altra da Bukhara, un’altra ancora da una notte d’amore mai raccontata.
E non era solo la materia a renderle proibite.
Era il modo in cui si cucinavano. Con intenzione. Con occhi bassi ma anima accesa. Con una lentezza che faceva arrossire.
Una delle prime ricette erotiche segrete che Noor apprese fu il murgh musallam con chiodi di garofano messi a mollo nel latte di cocco e succo di melograno. La preparava solo quando sentiva che l’amore non bastava più a parole.
Un’altra ricetta che le fu svelata, solo una volta, da una tawaif ormai cieca, era una zuppa dolce-salata con semi di nigella, pepe lungo, e pistacchi pestati. La donna le disse:
“Non dare mai questo piatto a chi vuoi conquistare. Solo a chi temi di perdere.”
E Noor ascoltò e imparò che certe ricette non sono afrodisiache solo perché accendono il desiderio, ma anche perché accendono la memoria del desiderio. E quella, non svanisce mai.
12
La stanza era ancora tiepida di spezie. La tavola sparecchiata, tranne che per due ciotole vuote e il profumo persistente di rosa e pepe lungo. Noor non parlava. Salim nemmeno. Ma il silenzio che si stendeva tra loro non era vuoto , era come l’impasto del naan: elastico, vivo, pieno di possibilità.
Lui le sfiorò il polso, appena. E bastò: perché Noor, che aveva danzato mille volte per occhi estranei, sentì il proprio corpo risponderle da dentro, senza musica, senza pubblico.
Ogni passo verso la stanza accanto fu una cadenza.
Ogni respiro, un tihai non battuto ma sentito nelle ossa.
Camminava davanti a lui, eppure non c’era distanza. Lui vedeva i suoi piedi nudi, ancora decorati d’henné, lasciare lievi impronte sulla pietra come ideogrammi effimeri.
E sentiva, nel proprio petto, il ritmo del thumri che lei non stava danzando, ma diventando.
Quando Noor si voltò i suoi occhi bruciavano come zafferano sciolto nel burro caldo.
Lui alzò una mano per colmare lo spazio fra loro che non si poteva più misurare in metri, ma in sospiri e versi sospesi.
Lei lo prese per le dita. Lentamente.
E si mossero insieme.
Non fu un abbraccio ma un mudra a due.
Un gesto raccontato con pelle, polsi, seni, labbra che disegnavano ombre sulle tende.
Ogni contatto fu come assaggiare qualcosa di proibito ma profondamente familiare.
Non c’era fame da colmare. Fu una coreografia della pelle, cucinata come i loro piatti: con attesa, con sguardi, con improvvisi scoppi di sapore nascosti nella dolcezza.
Quando si fermarono, quando il tempo si fermò per loro, Noor appoggiò la testa sul suo petto e disse:
“Abbiamo danzato anche senza danzare
Il desiderio può essere un incendio
o un lume acceso in cucina,
molto dopo mezzanotte
che non brucia ma scalda".
Salim rispose:
"Come un profumo, quel momento è rimasto in me
silenzioso, ma mescolato al vento del cuore,
dentro me
non resta promessa
né più incontro da sognare
eppure quel sapore si sveglia ad ogni tua parola, dentro me
tu cucinasti solo una colazione silenziosa
ma ogni boccone sembrava un verso sacro,
dentro me
Ora anch’io penso al profumo, più che al cibo
quello scivolato dalle sue dita, un tempo,
dentro me".
Da quel giorno, bastò solo accendere il fuoco insieme e la poesia tornò da sola frammista al profumo del riso.
FINE
Note
1. Le Tawaif sono esistite da secoli nel subcontinente indiano: il personaggio Vasantasena del dramma sanscrito Mṛcchakatika del V secolo a.C. era una Tawaif.
Molte ragazze erano prese in giovane età e formate sia nelle arti dello spettacolo, come mujra, kathak e musica classica indostana, sia nella letteratura, nella poesia ghazal, thumri e dadra, con standard elevati. La formazione delle giovani tawaif comprendeva anche la scrittura e l'enunciazione in urdu, nonché abilità sociali impiegate per coltivare i mecenati e trattenerli, in particolare la complessa etichetta associata al loro mestiere, in cui erano viste come esperte. Una volta che una tirocinante era maturata e possedeva una sufficiente padronanza della danza e del canto, diventava una tawaif, ballerina di alta classe al servizio di ricchi e nobili.
L'introduzione di una tawaif alla professione veniva segnata da una celebrazione, la cosiddetta cerimonia missī, che abitualmente prevedeva l'annerimento inaugurale dei denti.
Si ritiene inoltre che i giovani futuri nababbi venissero inviati dalle tawaif per imparare il tameez e il tehzeeb, che includevano la capacità di riconoscere e apprezzare la buona musica e la letteratura, anche praticarla, in particolare l'arte della scrittura ghazal. Divennero anche insegnanti per i figli di famiglie ricche ed élite, che spesso mandavano i loro figli nei kotha in modo che potessero imparare la lingua urdu, la poesia e l'etichetta dalle tawaif. Ai ragazzi veniva detto di sedersi e osservare come una tawaif si comporta nelle sue interazioni. Il contributo delle tawaif alla società proveniva da una tradizione familiare e godeva di una gerarchia. Al livello più alto delle tawaif era affidata la responsabilità di insegnare etichetta e buone maniere ai re e ai giovani principi. Inoltre avevano il compito di familiarizzare i giovani reali con le sfumature più sottili di poesia, musica, danza e letteratura, che nel XVIII secolo erano diventate l'elemento centrale della cultura educata e raffinata dell'India settentrionale.
Il kotha di una tawaif è uno spazio per spettacoli e un guardiano delle arti e della cultura, ed è aperto solo all'élite della città e ai ricchi mecenati. In questi spazi rarefatti, le tawaif componevano poesie, cantavano e ballavano con composizioni musicali dal vivo, oltre a esibirsi nei banchetti, il che richiedeva anni di rigorosa formazione. Le tawaif erano chiamate ad esibirsi anche nelle grandi occasioni come un matrimonio o la nascita di un erede maschio, solitamente cantando e mettendo in scena una storia mitologica o leggendaria. Le tawaif ballavano, cantavano, recitavano poesie e intrattenevano i loro corteggiatori nei mehfils.Il loro scopo principale era intrattenere professionalmente i loro ospiti, mentre il sesso era spesso incidentale e non era assicurato contrattualmente. Le tawaif di alta classe o più popolari potevano spesso scegliere tra i migliori dei loro corteggiatori. Le tawaif inoltre partecipavano alle celebrazioni nei templi durante le festività con esibizioni che erano state tramandate di generazione in generazione. Avevano anche la tradizione di esibirsi al bazar Burhwa Mangal nella primavera successiva al festival di Holi. Tali eventi fornivano loro un'occasione significativa, non solo di ricevere un patrocinio ma anche di mostrare le proprie abilità al pubblico generale, mantenendo così l'accettabilità sociale della loro professione.
I kotha, dove le tawaif spesso vivevano e si esibivano, ospitavano riunioni dell'intellighenzia locale, presiedute principalmente dalla tawaif più anziana. Godevano di influenza su scrittori, giornalisti e poeti che desideravano ardentemente esibirsi
“Oggi non ho un ghazal. Ho questo.”
Noor prese un cucchiaino. Assaggiò. E chiuse gli occhi.
Nessuno parlò. Non c’era bisogno.
Perché anche l’amore si serve caldo e si ascolta col palato.
La mattina dopo, la luce filtrava tra le tende leggere. Noor aprì il suo diario rilegato in pelle scura. Sfogliò lentamente, fino a una pagina vuota, tranne che per un piccolo fiore di basilico secco incollato nell’angolo. Prese la penna e, senza pensarci troppo, scrisse con una grafia obliqua :
"Ieri qualcuno
ha cucinato per me
senza chiedere nulla in cambio.
Non ha misurato spezie:
ha misurato silenzi.
E mi ha servito non un piatto,
ma una possibilità.
Ora so:
anche un uomo può preparare un ghazal a fuoco lento."
Sotto, più piccolo, aggiunse:
A volte le parole non cuociono , il sapore si sente solo con gli occhi.
Poi chiuse il diario e lo lasciò accanto a una ciotola d’argilla vuota, dove prima c’era lo sheer khurma.
6
Il giorno dopo Noor decise di preparare il Biriyani, non quello delle feste: quello delle sere intime.
Accese il fuoco appena prima del tramonto. Lavò il riso basmati tre volte, con lentezza. Scelse i semi di cumino uno a uno, come se ognuno fosse un verso antico. Nella padella mise burro chiarificato, chiodi di garofano, un bastoncino di cannella spezzato tra le dita, poi cipolla tagliata sottile. Aggiunse patate fritte, un po’ di yogurt montato a mano, coriandolo tritato fine, zafferano sciolto nel latte tiepido e versato a spirale, come il tempo che gira su se stesso quando si aspetta qualcuno. Quando i profumi si fecero profondi, sigillò la casseruola col pane.
Salim arrivò, varcando la cucina in silenzio.
Lei non parlò ma gli porse il piatto.
Si sedettero a terra, come nelle prime sere senza parlare. Ogni boccone era già una sillaba, ogni sorriso trattenuto una strofa incompiuta. Poi si spense la lampada, e tutto ciò che restò fu il profumo del biriyani. E il rumore lieve di due cucchiaini.
7
Alcuni giorni dopo Noor era seduta su un gradino in cucina, le ginocchia raccolte al petto, mentre tra le mani sfogliava una vecchia raccolta di ghazal. La luce cadeva sulle parole in urdu come rugiada su petali antichi. Dietro di lei, i fornelli tacevano.
Fu Salim a spezzare il silenzio.
Entrò portando un piccolo sacchetto di juta. Lo aprì. Dentro c’erano limoni verdi, foglie di menta, uno zenzero ancora con la terra addosso.
“Oggi posso avere il permesso di cucinare io?” chiese .
Noor fece un cenno di fiducia.
Salim allora iniziò a preparare un chutney. Tritava con lentezza, mescolando senza leggere nessun appunto: una parte asprezza, due parti desiderio, un soffio di chili per tutto ciò che non aveva osato dire. Noor osservava, in silenzio. Lo vedeva cercare il punto esatto di ogni sapore. Quando finì, versò il chutney in una piccola ciotola di terracotta e la posò davanti a lei.
“Non è perfetto,” disse. “Ma somiglia a me quando penso a te.”
Noor lo guardò. Poi intinse un dito, assaggiò appena. Chiuse gli occhi e disse :
Alcuni sapori non si assaggiano con la lingua, ma col cuore.
8
Le mani erano il primo capitolo di una Tawaif.
Dall’interno dei polsi fino alle punte delle dita, l’henné disegnava vortici di paisley, fiori aperti e versi in miniatura nascosti tra i rami. Ogni dito sembrava una strofa, ogni palmo una pagina di un diario privato. Sul centro della mano destra, un piccolo disegno ritraeva un paio di occhi socchiusi, forse i suoi, forse no. Le braccia salivano fino ai gomiti, ornate da arabeschi sottilissimi che imitavano la filigrana dei gioielli, ma fatti solo di pigmento e pazienza. Intorno all’avambraccio sinistro, una linea più scura formava un bracciale di parole: non lettere visibili, ma segni curvi che sembravano pensieri sussurrati a bassa voce. I piedi, tinti fino alle caviglie, portavano storie differenti: sotto il tallone destro, una luna calante; sul dorso del piede sinistro, un piccolo fiore di champa, lo stesso che portava tra i capelli. Le dita dei piedi, decorate con spirali e punteggiature, tintinnavano lievemente per via delle payal, le cavigliere d’argento, che rispondevano ad ogni passo con un suono leggero.
La tinta dell’henné era scura, profonda, a dimostrazione che era stata applicata con amore o, come diceva Amma Bibi, “più il cuore batte per qualcuno, più l’henné si fissa nel sangue.”
E quando danzava, i disegni prendevano vita: il fiore si apriva con le dita, la luna tremava sul tallone, i versi sembravano completarsi.
La sala era silenziosa quella sera. L’aria vibrava come pelle sfiorata da un sussurro. I cuscini di velluto erano vuoti, la luce tremolava sulle pareti color ambra, e al centro, Noor faceva le prove. Scalza, con i piedi decorati di henné come mappa segreta di un mondo antico, salì sulla pedana. Le payal alle caviglie tintinnarono, ma piano , come monete offerte al silenzio. Alzò le mani. Le palme, ornate di spirali e fiori, si aprivano verso il cielo. Le dita raccontavano: l’inizio dell’attesa, l’incontro, la bruciatura della separazione.
Ogni gesto portava con sé un frammento di memoria, e ogni movimento faceva risuonare l’henné come scrittura viva. Sul dorso delle mani, i disegni si intrecciavano alla luce: sembravano petali che si muovevano a tempo con il cuore, o versi antichi che danzavano da soli. Le braccia si sollevavano come onde, portando con sé il sapore del curry speziato, della malinconia morbida, dei giorni in cui si ama con timidezza. Quando girava su se stessa, la luna disegnata sul tallone destro tremolava con grazia, come se avesse sentito un nome sussurrato nella notte. Il fiore sul piede sinistro sembrava sbocciare ad ogni passo. I polsi si piegavano, e con loro, i disegni sembravano scrivere nell’aria lettere in una lingua che solo chi amava poteva comprendere.
Al termine, Noor si fermò.
Le mani aperte, il respiro lento. Il sudore si mescolava all’attar sulla pelle, e l’henné ormai leggermente sbavato, sembrava ancora più vero. Non decorazione, ma traccia.
Poi abbassò le mani. E nel silenzio, anche il suo corpo tacque.
9
La Mehfit di quella sera iniziò con un raga del tramonto, il Raga Yaman, suonato sulla sarangi o sul sitar. Le note fluivano come acqua profumata che scivola sul marmo, e aprivano lo spazio interiore dove poi Noor danzava.
Yaman era scelto non solo per la sua bellezza, ma perché evocava shringar rasa, desiderio, amore che si prepara, contemplazione amorosa prima che il corpo parli col suo linguaggio.
Quando lei prese posizione per il mujra, gli strumentisti, maestri silenziosi, intonarono il thumri in lingua Braj e Awadhi.
"Mio padre,
la mia casa natale
si allontana da me"
Era una thumri resa celebre da Wajid Ali Shah, re, ma anche compositore e mecenate della cultura tawaif.
Noor la danzava con gesti teneri e malinconici, le mani che si separano come chi parte, il volto che sorride mentre le lacrime si raccolgono alle ciglia.
Tra i pezzi più struggenti poi vi furono esecuzioni vocali di ghazal di poeti urdu come Mirza Ghalib, Faiz Ahmad Faiz e Jigar Moradabadi.
I musicisti usavano la tabla non solo per il ritmo, ma come controcanto emotivo: ogni tihai, frase ripetuta tre volte che chiudeva la sezione, si davano un colpo al petto, come fosse una pausa, una parola non detta.
Poi passarono ai dadra, composizioni più leggere, con testo affettuoso o malizioso, suonate in cicli ritmici di sei battute. Noor li usava per far sorridere il pubblico e Salim prendeva appunti di nascosto, ogni volta che una frase sembrava alludere a qualcosa tra loro due.
Alla fine quando la notte si fece intima, restò solo il tanpura, che vibrava come un respiro lungo. Noor smise di danzare e si mise a camminare lenta tra il pubblico quasi addormentato, recitando a bassa voce :
Né strumento né melodia: solo un raga di silenzio.
In quei momenti, nessuno osi interrompere.
Nemmeno la notte.
Non fu un maestro a insegnarmi questa arte.
Fu il palato.
Quando era ancora un’allieva, Noor aveva imparato i raga non seduta davanti al tanpura, ma in cucina, accanto ad Amma Bibi. Ogni pomeriggio, mentre le altre bambine battevano le mani sul ritmo, lei pestava semi di coriandolo e ascoltava la vecchia donna cantilenare sottovoce.
“Il Raga Bhairavi,” diceva Amma, “sa di acqua di rose versata troppo tardi: dolce, ma con l’amaro dell’addio.”
Noor chiudeva gli occhi e assaggiava il Firni appena tolto dal fuoco. Lo zucchero le si fermava sul retro della lingua, mentre l’aroma del cardamomo le saliva al naso.
Poi ascoltava: il raga Bhairavi arrivava come una nostalgia, come latte versato su lettere mai spedite.
Un giorno chiese:
“E il Raga Malkauns?”
Amma le porse un cucchiaino di chutney di tamarindo scuro e disse :
“Questo”
La bocca di Noor si strinse. Era acido, misterioso, ricco come un amore maturo e pieno di ombre.
Poi, con gli anni, cominciò a riconoscerli tutti:
Il Raga Desh, come una lassi fredda al sale, bevuta in una sera d’estate: gioioso, ma asciutto. Il Raga Todi , come fieno greco nel burro fuso: amaro, denso, profondamente intimo. Il Raga Yaman, lo imparò gustando un cucchiaio di latte allo zafferano che sapeva di attesa paziente.
Così, mentre i suoi compagni memorizzavano scale e sequenze, Noor imparò a sentire la musica sulla lingua, non solo nelle orecchie. Per questo, anni dopo, per lei nessun raga fu mai solo suono ma un sapore che si scioglieva nel gesto.
10
Era una notte che profumava di vetiver e vento caldo, con i lampioni ad olio che tremolavano come palpebre stanche.
Nella haveli, la mehfil era pronta, ma diversa dalle altre: quella sera non danzava Noor, né cantava una tawaif. C'era silenzio, attesa.
E il tappeto al centro della sala era vuoto.
Poi entrò Salim da solo e vi si sedette.
Indossava il suo kurta semplice, lo scialle indaco stinto e lo sguardo umile.
Nelle sue mani c’era un taccuino. Lo aprì e senza nessuna introduzione e nessun saluto, recitò il primpo Ghazal a occhi bassi:
Il tuo silenzio
fu l’inizio della mia lingua.
Anche senza il tuo tocco
il mio amore fu completo.
Gli occhi del pubblico si sciolsero piano nella penombra.
Noor, seduta tra le tende leggere, lo osservava. Non portava trucco, né kajal, né payal alle caviglie. Solo un’ombra di sorriso sulle labbra nude.
Seguirono tanti altri ghazal su un sottofondo di tanpura.
Quando il recital giunse alla fine , Salim si fermò, chiuse il quaderno e guardando Noor, fra il pubblico, negli occhi a lungo, disse :
“Tutti pensano
che il poeta reciti per essere amato.
Io no. Io recito perché tu abbia uno specchio
dove vedere ciò che sei diventata per me.”
Allora Noor si alzò, a piedi nudi camminò sul tappeto, lentamente, il passo segnato solo dal suono lontano del tanpura. Si inginocchiò accanto a lui e disse:
"Oggi sei il mio raga silenzioso
quello che suona nel cuore
senza note, per sempre".
11
Nella penombra dorata della cucina, Noor si muoveva quella sera con la lentezza rituale che somiglia alla concentrazione dei musicisti prima del primo raga.
Quella sera era diversa: non cucinava per nutrire, ma per svegliare il desiderio.
Accese una candela profumata al legno di sandalo, e tirò fuori una scatola intagliata che custodiva gli ingredienti segreti tramandati dalle tawaif più antiche, come un grimorio sensuale nascosto tra i barattoli.
Cominciò con le mandorle, ammollate per ore, poi pestate nel mortaio insieme a pistacchi e semi di papavero bianco per scaldare il sangue, come diceva Amma Bibi, e rendere docile la mente ai desideri.
Fece poi scaldare il latte intero con fili di zafferano, miele di fiori selvatici e un pizzico di noce moscata. Lo mescolava piano, con un cucchiaio di legno. Aggiunse qualche goccia d’olio essenziale di rosa damascena, usato una volta dalle regine di Awadh prima degli incontri più attesi. Il profumo si diffuse lento, penetrante, come una poesia che sa già a chi è destinata. Mise da parte il latte speziato, e iniziò a preparare il curry di gamberi al latte di cocco, con semi di fieno greco e pasta di tamarindo. Una combinazione misteriosa dolce, ma affilata, come lo sguardo di chi non parla ma vuole essere ascoltata. Nel piatto finale, versò anche una salsa a base di datteri, semi di coriandolo e polvere di petali di rosa essiccati. Uno sciroppo lento, rosso ambrato, che tremolava nel cucchiaio come un desiderio che ancora non osa.
Quando Salim arrivò, vide le ciotole ornate di foglie d’argento con i cibi caldi ma non bollenti, come i sogni che si vogliono ricordare.
Noor non disse nulla. Gli porse il piatto con un gesto del polso, e uno sguardo appena inclinato. E sulla tovaglietta, una frase scritta con un rametto di zafferano:
A volte
per svegliare il corpo
bisogna prima accendere il cuore.
Noor aveva imparato quelle ricette proibite come si imparano i segreti di un corpo: ascoltando.lo. Fu Amma Bibi, la vecchia cuoca della haveli, a piantarle i primi semi, non con spiegazioni, ma con sguardi, silenzi e gesti millimetrici. Ma fu solo entrando nella dispensa nascosta dietro il cortile delle magnolie, che Noor scoprì la vera alchimia. Lì, dentro barattoli opachi e vasi etichettati solo in calligrafia urdu ormai svanita, c’erano polveri e resine, miele nero e noci immersi nel brandy, semi dimenticati e rose essiccate all’ombra.
Ogni ingrediente aveva un’origine segreta: qualche tawaif l’aveva portato da Lucknow, un’altra da Bukhara, un’altra ancora da una notte d’amore mai raccontata.
E non era solo la materia a renderle proibite.
Era il modo in cui si cucinavano. Con intenzione. Con occhi bassi ma anima accesa. Con una lentezza che faceva arrossire.
Una delle prime ricette erotiche segrete che Noor apprese fu il murgh musallam con chiodi di garofano messi a mollo nel latte di cocco e succo di melograno. La preparava solo quando sentiva che l’amore non bastava più a parole.
Un’altra ricetta che le fu svelata, solo una volta, da una tawaif ormai cieca, era una zuppa dolce-salata con semi di nigella, pepe lungo, e pistacchi pestati. La donna le disse:
“Non dare mai questo piatto a chi vuoi conquistare. Solo a chi temi di perdere.”
E Noor ascoltò e imparò che certe ricette non sono afrodisiache solo perché accendono il desiderio, ma anche perché accendono la memoria del desiderio. E quella, non svanisce mai.
12
La stanza era ancora tiepida di spezie. La tavola sparecchiata, tranne che per due ciotole vuote e il profumo persistente di rosa e pepe lungo. Noor non parlava. Salim nemmeno. Ma il silenzio che si stendeva tra loro non era vuoto , era come l’impasto del naan: elastico, vivo, pieno di possibilità.
Lui le sfiorò il polso, appena. E bastò: perché Noor, che aveva danzato mille volte per occhi estranei, sentì il proprio corpo risponderle da dentro, senza musica, senza pubblico.
Ogni passo verso la stanza accanto fu una cadenza.
Ogni respiro, un tihai non battuto ma sentito nelle ossa.
Camminava davanti a lui, eppure non c’era distanza. Lui vedeva i suoi piedi nudi, ancora decorati d’henné, lasciare lievi impronte sulla pietra come ideogrammi effimeri.
E sentiva, nel proprio petto, il ritmo del thumri che lei non stava danzando, ma diventando.
Quando Noor si voltò i suoi occhi bruciavano come zafferano sciolto nel burro caldo.
Lui alzò una mano per colmare lo spazio fra loro che non si poteva più misurare in metri, ma in sospiri e versi sospesi.
Lei lo prese per le dita. Lentamente.
E si mossero insieme.
Non fu un abbraccio ma un mudra a due.
Un gesto raccontato con pelle, polsi, seni, labbra che disegnavano ombre sulle tende.
Ogni contatto fu come assaggiare qualcosa di proibito ma profondamente familiare.
Non c’era fame da colmare. Fu una coreografia della pelle, cucinata come i loro piatti: con attesa, con sguardi, con improvvisi scoppi di sapore nascosti nella dolcezza.
Quando si fermarono, quando il tempo si fermò per loro, Noor appoggiò la testa sul suo petto e disse:
“Abbiamo danzato anche senza danzare
Il desiderio può essere un incendio
o un lume acceso in cucina,
molto dopo mezzanotte
che non brucia ma scalda".
Salim rispose:
"Come un profumo, quel momento è rimasto in me
silenzioso, ma mescolato al vento del cuore,
dentro me
non resta promessa
né più incontro da sognare
eppure quel sapore si sveglia ad ogni tua parola, dentro me
tu cucinasti solo una colazione silenziosa
ma ogni boccone sembrava un verso sacro,
dentro me
Ora anch’io penso al profumo, più che al cibo
quello scivolato dalle sue dita, un tempo,
dentro me".
Da quel giorno, bastò solo accendere il fuoco insieme e la poesia tornò da sola frammista al profumo del riso.
FINE
Note
1. Le Tawaif sono esistite da secoli nel subcontinente indiano: il personaggio Vasantasena del dramma sanscrito Mṛcchakatika del V secolo a.C. era una Tawaif.
Molte ragazze erano prese in giovane età e formate sia nelle arti dello spettacolo, come mujra, kathak e musica classica indostana, sia nella letteratura, nella poesia ghazal, thumri e dadra, con standard elevati. La formazione delle giovani tawaif comprendeva anche la scrittura e l'enunciazione in urdu, nonché abilità sociali impiegate per coltivare i mecenati e trattenerli, in particolare la complessa etichetta associata al loro mestiere, in cui erano viste come esperte. Una volta che una tirocinante era maturata e possedeva una sufficiente padronanza della danza e del canto, diventava una tawaif, ballerina di alta classe al servizio di ricchi e nobili.
L'introduzione di una tawaif alla professione veniva segnata da una celebrazione, la cosiddetta cerimonia missī, che abitualmente prevedeva l'annerimento inaugurale dei denti.
Si ritiene inoltre che i giovani futuri nababbi venissero inviati dalle tawaif per imparare il tameez e il tehzeeb, che includevano la capacità di riconoscere e apprezzare la buona musica e la letteratura, anche praticarla, in particolare l'arte della scrittura ghazal. Divennero anche insegnanti per i figli di famiglie ricche ed élite, che spesso mandavano i loro figli nei kotha in modo che potessero imparare la lingua urdu, la poesia e l'etichetta dalle tawaif. Ai ragazzi veniva detto di sedersi e osservare come una tawaif si comporta nelle sue interazioni. Il contributo delle tawaif alla società proveniva da una tradizione familiare e godeva di una gerarchia. Al livello più alto delle tawaif era affidata la responsabilità di insegnare etichetta e buone maniere ai re e ai giovani principi. Inoltre avevano il compito di familiarizzare i giovani reali con le sfumature più sottili di poesia, musica, danza e letteratura, che nel XVIII secolo erano diventate l'elemento centrale della cultura educata e raffinata dell'India settentrionale.
Il kotha di una tawaif è uno spazio per spettacoli e un guardiano delle arti e della cultura, ed è aperto solo all'élite della città e ai ricchi mecenati. In questi spazi rarefatti, le tawaif componevano poesie, cantavano e ballavano con composizioni musicali dal vivo, oltre a esibirsi nei banchetti, il che richiedeva anni di rigorosa formazione. Le tawaif erano chiamate ad esibirsi anche nelle grandi occasioni come un matrimonio o la nascita di un erede maschio, solitamente cantando e mettendo in scena una storia mitologica o leggendaria. Le tawaif ballavano, cantavano, recitavano poesie e intrattenevano i loro corteggiatori nei mehfils.Il loro scopo principale era intrattenere professionalmente i loro ospiti, mentre il sesso era spesso incidentale e non era assicurato contrattualmente. Le tawaif di alta classe o più popolari potevano spesso scegliere tra i migliori dei loro corteggiatori. Le tawaif inoltre partecipavano alle celebrazioni nei templi durante le festività con esibizioni che erano state tramandate di generazione in generazione. Avevano anche la tradizione di esibirsi al bazar Burhwa Mangal nella primavera successiva al festival di Holi. Tali eventi fornivano loro un'occasione significativa, non solo di ricevere un patrocinio ma anche di mostrare le proprie abilità al pubblico generale, mantenendo così l'accettabilità sociale della loro professione.
I kotha, dove le tawaif spesso vivevano e si esibivano, ospitavano riunioni dell'intellighenzia locale, presiedute principalmente dalla tawaif più anziana. Godevano di influenza su scrittori, giornalisti e poeti che desideravano ardentemente esibirsi


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