“et hospitalitatem nolite oblivisci: per hanc enim latuerunt quidam angelis hospitio receptis”
dice San Paolo in Ebrei, 13, 2.
E raccapriccia l’idea che una civiltà erede dei valori cristiani, quegli ideali che sottendevano come nella classicità greco-romana pagana il concetto della divinità ipoteticamente celata sotto le sembianze del forestiero, si sia recentemente scordata delle sue impronte fondanti vestendosi prima da Circe avvelenatrice e trasformatrice della forza lavoro allotria in soggetti di stampo simil-suino deprivati di ogni dignitas humana (si vada a Borgo Mezzanone e lo si constati!) ed oggi abbia eretto muri e barriere portuali per lasciar annegare in un calvinista mare di indifferenza la gente che attraverso le distese salmastre fugge dalla morte.
Questo è il grido di sdegnata invocazione che trabocca dalle liriche di Guglielmo Campione, in una intelligente rilettura delle pagine omeriche dove tra il Canto di Calipso e quello di Nausicaa v’è una non casuale contiguità rimarcante l’assenza di soluzione di continuo nell’afflato dessiotico (δεξίωσις, accoglienza) delle due figure femminili. Fa specie oggi, quando si guarda con scetticismo alle unioni miste tra migranti ed indigeni in ragione delle paratie etniche, religiose e culturali, leggere che prima del distacco la dea Calipso e lo straniero mortale τερπέσθεν φιλότητι, παρ’ ἀλληλοισι μένοντες, “godettero dell’amore stendendosi paralleli”! Ed ancor più sorprendente è il sentimento di diffidenza e di paura odierno all’arrivo di un migrante, se paragonato alle parole di Nausicaa dopo la captatio benevolentiae di Odisseo, maschio adulto nudo e sporco di fronte a lei, giovane bellissima lindissima vergine:
στῆτε μοι, ἀμφίπολοι· πόσε φεύγετε φῶτα ἰδοῦσαι; “Fermatevi, ancelle! Dove fuggite alla vista di un maschio?” “Nessuno può far male a noi Feaci…ἀλλʹὅδε τις δύστηνος ἀλώμενος ἐνθάδʹἱκάνει͵ τὸν νῦν κρὴ κομέειν· πρὸς γὰρ Διός εἰσιν ἅπαντες ξεῖνοί τε πτωχοί τε...”Però costui è un misero naufrago giunto qui e dobbiamo prenderne cura: vengono tutti da Zeus gli stranieri e i poveri!”
Parole retrospettivamente rivoluzionarie, diremmo!
E’ questa adesione spontanea, gravida d’umanesimo (la medesima di Didone ad Ilioneo supplice di dar loro naufraghi diritto d’ospitalità: “Solvite corde metum, Teucri, secludite curas…Tros Tyriusque mihi nullo discrimine agetur” “Sciogliete l’ansia dal cuore, Teucri, lasciate l’angoscia!...Teucro o Tirio, da me avrà ugual trattamento!”) che invocano le liriche di Guglielmo, scevra dal metodo malfidato di Circe, che, davvero, nella trasformazione dei migranti in porci rassembra gli sfruttatori della forza-lavoro straniera che per decenni hanno cauterizzato col profitto il fastidio per l’afflusso di manodopera non indigena prima che gli arrivi venissero considerati invasione.
Ma le note lacrimevoli già scandite nel tema del rifiuto dell’accoglienza, si esaltano in un concerto epicedico quando il poeta affronta il tema foscoliano (già catulliano) della negata sepoltura, laddove Guglielmo fa emergere tutte le radici dell’episteme scritturale e classica.
Come non riecheggiare nella sua “Le ossa e i coralli”, allorché egli struttura un periodo ipotetico terribilmente ottativo (“se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall’insultar de’ nembi e dal profano piede del vulgo e serbi un sasso il nome e di fiori adorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli”), l’anatema biblico della reductio ad pulverem tratto da Genesi, 3, 19:
“Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”?
E come non annusarvi l’afflato travalicatore dell’ostilità etnica del XXIV dell’Iliade in cui gli eroi vinti si accomunano in un unico dramma al di là del front line per una volta silenziato? Ed è lì, in quell’empito comune risolutore degli odi guerrieri, che, al termine della straziante supplica di Priamo, Achille e il vecchio sovrano teucro concordano il “cessate il fuoco” per la sepoltura delle spoglie di Ettore:
"ποσσῆμαρ μέμονας κτερεïζέμεν Ἕκτορα δῖον ὄφρα τέως αὐτός τε μένω καὶ λαὸν ἐρύκω “
per quanti giorni vuoi celebrare gli onori funebri d’Ettore?
Ch’io fin allora stia fermo e trattenga l’esercito”
ἐννῆμαρ μέν κʹαὐτὸν ἐνὶ μεγάροις γοάοιμεν͵ τῇ δεκάτῃ δέ κε θάπτοιμεν͵ δαινῦτό τε λαός͵ ἑνδεκάτῃ δέ κε τύμβον ἐπʹαὐτῷ ποιήσαιμεν
“Per nove giorni vorremmo piangerlo in casa, al decimo interrarlo, il popolo banchetterà, vorremmo innalzare sopra di lui la tomba all’undicesimo”.
La sepoltura è pausa all’astio, la sacralità della memoria ne silenzia l’urlo bellicoso: è giusto e legittimo lo sconvolgimento di Campione di fronte all’impossibilità di una cesura delle barriere razziali in ragione di un mare Mediterraneo trasformato da nastro veicolatore delle linfe vitali interetniche in immondo e cruento imbuto di corpi alimentatori di fauna ittica.
Attonito, egli assiste impotente all’annegamento delle matrici culturali fondate a ridosso di quel mare!
Mariano Grossi
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