Il Francesco di Tarcisio Manta nel ciclo pittorico del Cantico delle Creature . Un capo chino e un equanime sorriso . di Guglielmo Campione


                                       






La cifra distintiva della rappresentazione di Francesco nelle tavole del ciclo pittorico del Cantico di Padre Tarcisio Manta è il capo chino e il sorriso equanime che ricorda il caratteristico sorriso  equanime del Buddha . 

E chinarsi è il gesto supremo della Clinica , il cuore della clinica : clino è in latino mi piego , mi inchino , mi abbasso , annullo differenze di posizione e statura ponendo la relazione su di un piano cooperativo orizzontale . 

Come diceva Garcia Marquez, i cui racconti coloritissimi di rutilanti emozioni vitali ricordano i colori vivacissimi delle tavole di Tarcisio Manta , "ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall'alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi ". 

Un comune atteggiamento clinico di cura del cuore , che nasce dalla tolleranza , dalla compassione e non dal giudizio e dalla condanna  , pur nel comune aborrire guerra e violenza, che accomuna Francesco al "Francescanesimo" di Emergency, e Tarcisio a Francesco . 
Un "clinarsi clinico " che sorregge tutta l'opera di Emergency e Gino Strada come una visione profetica e che sorregge nello spirito l'altissima specializzazione ed efficienza -efficacia degli interventi sanitari : perchè amore é Charitas certamente ,ma nel terzo millennio è preparazione , professionalità , sapere scientifico e non improvvisazione giustificata e auto assolta solo dalla pur sacrosanta disponibilità e buona volontà. 

Un'analoga perizia tecnica di alto livello formale si riscontra nelle tavole di Padre Tarcisio , celebrazione vibrante e caldissima delle meraviglie dell'opera gloriosa del nostro Grande Architetto dell Universo .

Il Francesco di Tarcisio non si erge trionfante , dritto , come un' icona Cristica tradizionale ma asseconda le curve , si piega su chi è gia piegato , si fa curva sulla curva , pare guardare e invita a guardare il mondo dalla prospettiva del pittore che non s'accontenta del verismo o del realismo ma guarda al di là , con l'intelligenza del cuore  , delle separazioni e categorizzazioni della mente razionale. Francesco pare piegare il capo per vedere da un'altra prospettiva , un gesto tipico del pittore , dello scultore , del regista . 

Un sorriso, che proviene dall’intimità del cuore e che pare suggerire la via dell'abbandono fiducioso , il dono divino dello stato di grazia , di beatitudine , di devozione,  della fede come fiducia , dell'equanimità che si fa nel distacco dall'attaccamento cieco e nell'accettazione del proprio destino e dello scopo della propria vita.
La compassione e la gentilezza che fanno dire al Buddha che tutto è uno , tutto è interconnesso , ogni cosa è dipendente da un'altra : la compassione verso se stessi e i propri attaccamenti sono la via per la compassione gentile e non giudicante dell'animo altrui . 

L’uomo, in linea di massima, non conosce ancora cosa sia il sorriso aperto dell’anima. 

Egli si porta addosso, se non un malumore, almeno una “mancanza di buon umore ” e di “gioia esistenziale”, che fanno parte della sua natura.

Non ha tutti i torti; spesso, la vita non è allegra, né facile, né buona.

Ma, sovente, egli crede, pure, che i pensieri di vita superiore, la filosofia dell’essere, le verità metafisiche vadano affrontate quasi con cipiglio; con una concentrazione continua che pare possa aiutare a digerire l’essenza delle cose .

La via del Francesco di Tarcisio è la via del sorriso , un sorriso interiore come interiore è lo sguardo con gli occhi sempre chiusi all'esterno ma rivolti all'interno e le mani sempre aperte , grandi , sempre con i palmi rivolti verso il cielo.

La via di Francesco è nell'accettazione totale , nell'Amore senza condizioni , unico vero amore che non ti chiede di conformarti ma ti ama per quello che sei : la tenerezza è l'amore di chi non vuole nulla in cambio , l'amore gratuito , senza se . 

Le mani aperte , il capo chino , il sorriso equanime : segni di un corpo che si fa  cura e dunque PONTE fra gli uomini e fra cielo e terra. 

Un ponte per il dialogo e le sinergie fra le culture della cura e della spiritualità nel nostro tempo.

Il pontifex, fabbricatore di questa via-ponte fra persone , fra umano e divino e fra la vita individuale e quella collettiva .

Come dice Gialal Ad Din Rumi , grande mistico islamico Sufi, profeta dell'infinito amore e dell'infinita tolleranza: 
"Quello che facciamo e ci fa incontrare non è né nel mio campo né nel tuo : è in un terzo campo che è quello dell’incontro, un campo nuovo che costituiamo ex novo ".

IL LUNGO CAMMINO DEL FULMINE : gli orizzonti dell'attesa di Gabriella Campione

     



Nel vagabondaggio del cuore dalla” casa” al” mondo” si aprono molteplici gli orizzonti dell’Attesa.

Le composizioni ,raggruppate in tre sezioni:Amore e Disamore, Amore e Psiche, Amore e Divino, ci invitano a scoprire gli inediti paesaggi della dimensione soggettiva del Tempo .

La domanda “dove sarai?” apre la raccolta e l’urgenza di una possibile risposta ci tende come freccia sull’arco.

Dalla “casa” al “mondo”.

Ed è questa tensione tra elementi opposti( dentro/fuori/) ma contigui, che ci accompagna per tutta la raccolta in versi.

Diastole,sistole.

Il mio battito si protende alla ricerca del battito dell’altro.

L’Attesa.

Il canto del disamore si fa spazio tra le pieghe carezzevoli degli abbracci perduti.

“Attesa” come ricerca di parole che diano cittadinanza all’amore come al disamore,dove “ la lingua scava pozzi profondi” .

Dialogando con le ferite inferte da Eros, navighiamo lungo il corso del”Fiume sotterraneo di pianti lacrime e capricciosi maquillage”.

Attraversiamo cunicoli ,grotte ,avanziamo a tentoni nel buio..” Sto brindando in piena solitudine alla tua salute” “ mentre il silenzio danza in punta di piedi sulle acque del mio ostinato tremore”Nel silenzio vediamo netti i contorni delle parole, ascoltiamo “ musiche senz’eco “ci sporgiamo oltre il dolore dell’ abbandono così i versi saltellano come una cascatella inattesa di un fiume ormai prosciugato.

“Attesa” come sospensione del tempo degli accadimenti per dar corpo alle domande:”Dove sono i nostri fiori ora?”

E l’incontro con il nostro interrogarci, ci apre nuovi scenari dove celebrare la Vita.

“Attesa” come il luogo dove si genera il desiderio ..:”

incontro il mio desiderio

d’ incontrare in te una carezza”.

Mai l’ ”Attesa” si fa Assenza,Vuoto.

I pensieri sono canne al vento,pronti a “Ri-Suonare”le voci di fuori.

Eccoci nudi con i piedi sul confine lì dove finisce la terra e l’onda ci lambisce le dita ,in un movimento incessante che copre e scopre.

Dall’istintiva immersione nelle emozioni nasce la necessità di riemergere alla ricerca di uno specchio. “Parlo a te ? Parlo a me ? Parlo a me per parlare a te?””Dove finisci tu”?

Il silenzio interno si rompe ,necessita dello sguardo dell’altro. Si fa dialogo

Ora appare la dimensione della “strada” : “Dolci o amare le parole sono fatte per esser dette da dentro spingono per vedere la luce”

“Gli uomini si ammalano” ,ma “quando chiudono con il primo grande amore riprendono a vivere forti e solitari per le strade del mondo”.. “Nelle teche impolverate silenzioso e rapido sento il flusso arrivare”.

Il vagabondaggio del cuore sempre in bilico tra l’acqua elemento primigenio e la terra” che attende il seme” ci fa imbattere in Giungle elettriche ,in”Città di tombe abitate e di cuori accerchiati da segnali lampeggianti ,perderci in “una giungla di amori mai amati di nemici mai odiati”.

E ancora riemerge l’Attesa .

L’Attesa che finalmente la rabbia,il dolore ” oh no sourrender di nuovo prigionieri di quel Diavolo del cervello” , si stemperino nell” ’accogliere le stagioni del cuore come accogliere le stagioni che passano sui campi”.

I versi si fanno più morbidi ,le parole si trasfigurano in un grande orecchio pronto ad “Ascoltare” le voci di fuori,del mondo ” e lasciare che l'autunno si intrufoli fra qualche brivido con la speranza che ancora una volta le foglie cadano e si sciolgano come d’incanto i nodi dei miei pensieri”.

I pensieri si fanno ritmo ,calore .Scorrono in cerca del Cuore che li distilla aprendogli la strada verso l Alt(r)o ” Se c’è forse un sol modo di serbare il bambino è questo poi l’esclusivo cammino Quanto infatti cerchiam di evitare il dolore strada non c'è se non quella del cuore” “ e nel mio cuore il senso del mistero infinito,del viaggio,della casa e delle urgenze carnali” .

Il Tempo diviene circolare.

Come nel gioco del caleidoscopio,che tanto ci affascinava quando eravamo bambini, frantumi di immagini ,suoni, odori si ricompongono capricciosamente ” si mescolavano profumi d incenso urina , semola , ragù e alghe nel vento freddo di maestrale”…” il cicaleccio caotico dal cuore degli eucalipti d’Asia giganti delle tue strade alberate dove correvo sudato in cerca dell’azzurro”.

Le radici,l’infanzia ,la Terra si fanno cave ,pronte ad accogliere il seme del Mondo.

Le urgenze individuali cercano ora lenimento nella Terra,nell’Acqua “ Calice Gral Vaso che nella tua essenza il vuoto ispiri a coltivare fluidità”

L’Attesa si fa consapevolezza :” la morte dell’io l’apertura al sè e l’uomo nuovo”.

E pur non potendosi fare ancora compimento, si fa anelito “è la soffice goccia di pioggia e il mio cuore indurito beve la campanella che suona nella notte del mio infreddolito spirito” e aneliamo dolenti all’acqua sorgiva alla poesia che canta la canzone della purezza”.

Ed ecco dopo aver vagabondato e incrociato lungo la strada “santi e puttane,vecchi sarti di folli merletti” “giunge sera a rigenerare tempo lumaca”.Tempo e Spazio si dilatano “senza freno il mio occhio attraversa all’infinito un cielo notturno…..presentendo l’assenza di un fondo”

L’Attesa si fa Cielo Notturno dove poter incontrare la dimensione dell’Amore Divino,oltre l’io,oltre il sé.

Il Cuore è un utero pronto a partorire “come una meteora che solca il cielo notturno così lontano arrivi sin qui dove commosso raccolgo il senso del tuo nascere e bevo avido l’elisir che porgi da bere come una magnifica sfida”

Con le spalle ormai erette passeggiamo sul “Luogo magico”,il Molo.

L’Attesa si compie: sulla linea di confine ”Finis terrae”

Il nostro vagabondare trova compimento.

IL Molo, il Limite, diviene simbolo di quello spazio di finità infinita dove tutto si incontra e si ricompone L’azzurro del cielo e il buio della notte, e “l'attrazione atavica al Pesce Primo Antenato cui s’anela a ricongiungersi ora in bocca e in pancia domani noi inceneriti grigio bianca pastura per gli sgombri”.

Le Radici si fanno Ali

La Terra si fa Cielo

Il Maschile incontra il Femminile.

Il Cerchio si chiude aprendosi all’Infinito.






Gabriella Campione

IL LUNGO CAMMINO DEL FULMINE : LA POETICA di Guglielmo Campione






Il linguaggio della poesia è una danza continua tra la prosodia, la musica della parola, e il suo significato.
In questa perenne oscillazione nulla più appare definito e una volta per tutte.
Come per la musica, il tempo della poesia si da nella durata, il tempo d'un continuo dispiegarsi e morire, comparire e sparire.
Un nomadismo della mente e del cuore, del pensiero e degli affetti che assomiglia a un eterno vagabondaggio.
Un fulmine, per antonomasia istantaneo e significante d'un tempo ridotto al suo minimo, puo diventare nell'amore e nella poesia, sospensione e massima dilatazione del tempo.

La dimensione del fulmine è sorella della dimensione dell'eterno, una sospensione del tempo della mente operata dal cuore, una dilatazione esistenziale infinita pur contenuta nel tempo minimo della folgorazione.

L'amore nasce nell'ascolto primordiale del battito ritmico del cuore della Madre mentre siamo immersi in amnios, e questo battito è il primo manifestarsi del tempo, del suo ciclico ripetersi.

Quel battito e il suono ciclico del respiro che ricorda il suono marino della risacca sulla battigia, segnalano all'essere la presenza dell'Altro e la fine della solitidine.

Ancor prima che sentirsi e sapersi vivi, come succederà dopo la nascita,vedendosi esistente nello sguardo dell'Altro, l'Amore si fonda da subito nella musica, nel linguaggio della voce, del cuore e del respiro.

Ecco perche comuni sono le radici della musica e della mistica.

IL LUNGO CAMMINO DEL FULMINE, nel condurci prima tra le oscure ombre della selva del disamore, dell'abbandono,della malinconia, progressivamente rischiarate dalla luce che l'amore acquista quando si fa raffinato e sofisticato strumento di conoscenza di sè e dell'altro ed infine porta d'accesso al Divino,ci chiede di mantenerci sempre in ascolto della musica della parola.

 Se la mente programma, calcola e mente, infatti, la musica della parola che è musica del cuore, non conoscendo calcoli e opportunità, non mente mai.

Il lungo Cammino del fulmine : una Mitopoiesi escatologica . Recensione di Adriana Zanese





Nel sottotitolo “la casa del mondo” è un'espressione già evocativa, mistica, rimanda a dottrine esoteriche di matrice orientale (ma tutto l'esoterismo lo è) alla Blavatsky;

e su un piano più razionale, secolare-laico, alla filosofia di Bergson; ancor prima, all'Aiòn di Platone: il tempo interiore, coscienziale, che non ammette delimitazioni cronotopiche, ma è spazio della mente compenetrata nel Tiamat primordiale della religione sumera, Io, non ancora individuale, immerso nella Consapevolezza Universale (i culti misterici di Atlantide).

 I versi liberi, prosastici di Campione richiedono una lettura attenta, sensibile, una cultura profonda.

Ogni frase, ogni parola propone un mondo da esplorare, una possibilità da dischiudere nel relativismo esperienziale che ci circonda. Sono ciottoli lanciati gentilmente ma problematicamente in uno stagno di ninfee alla Manet, verso la profonda risonanza di un'anima complessa.

“Navighiamo lungo il corso sotterraneo di pianti, lacrime e capricciosi maquillage”, “e l'incontro con il nostro interrogarci ci apre nuovi scenari dove celebrare la vita”. Uno sguardo sulla realtà, quello di Campione, che, con l'irresolutezza della sua materia, ci sfugge sempre e che dobbiamo sempre inseguire, cercare di afferrare.

“Parlo a me per parlare a te? Dove finisci tu?” Il poetare di Campione è in effetti analitica ricerca di sé e dell'altro, implica e sottende i rapporti interpersonali come ricerca del sé (una concezione base della psicanalisi).

Le “Giungle elettriche e le città di tombe abitate, e di cuori accerchiati da segnali lampeggianti” appaiono come l'ostacolo da vincere in questa perenne Attesa, che è metafora di molto altro, forse di una tensione escatologica, e che dà il senso alla vita, in questa dimensione.

IL LUNGO CAMMINO DEL FULMINE, Guglielmo Campione e l'ermetismo : recensione di Mariano Grossi .









C’è tutto Ermete Trimegisto, il grande alessandrino filo-egizio ovvero il messaggero e traduttore divino, Ermes, nelle liriche di Guglielmo Campione ed ogni pezzo compositivo, ogni singolo mattone dei suoi componimenti necessita la cazzuola e il cemento dell’ermeneuta più navigato ed esperto, ai fini della gestione complessiva del monolite psico-edile di ogni sua poesia.
E mai termine, a mio parere, risultò più pregnante e aderente all’afflato creativo di questa maieutica dell’anima giustamente ed a  ragione prestato alla partorienza lirica, laddove egli sicuramente travasa la sua gnosis scientifica e mitologica che fa da sostrato alle esperienze vitali che l’hanno attraversato e che egli attraversa tuttora in un metabolismo, direi, ancora in fieri.

Scrive Th. S. Eliot: “Soltanto un cattivo poeta potrebbe accogliere il verso libero come una liberazione della forma”.

 Guglielmo Campione  nel suo percorso di affrancamento dell’animo si dimostra analogamente a suo agio sia nel verso libero che in quello rimato ed obbligato a ritmi e prosodia.
Ogni parola in lui si fa simbolo ed allegoria di un vissuto psichico inesausto e coinvolgente che suscita interrogativi reiterati nel lettore attento.

Andiamo per gradi ed addentriamoci nella prima delle tre sezioni compositive del suo libercolo di carmi, 
quella dedicata ad ”Amore e disamore.

 L’insolente accoglienza del giorno: già nel titolo la creazione, specchio e scaturigine dell’ordito interiore, urge di un exordium antitetico ed ossimorico: chi accoglie non dovrebbe mai avere arroganza ed irriverenza, tanto più distante da questi empiti si immagina l’avvento della luce mattutina, solutrice delle caligini notturne! Eppure, il poeta è uomo che avverte questi forti contrasti nel vitalismo quotidiano. Il sussurro della formula più sublime pur se sovente sgualcita nel routinario effimero giornaliero, ”Ti amo”, diventa fonte di menzogna di difficile individuazione, ed è tremendo il sottolineare che la simulazione, la mendacia, elemento  quant’altri mai avvelenatore del rapporto umano, ha l’impulso cristallino e sorgivo di una fonte d’acqua (“schizzò l’impercettibile bugia”). Ma l’amplesso notturno è di solito compagno di avidità oniriche mai aderenti alla verità e, alla luce del mattino, la fluidità dei corpi che si posseggono pare suggerire un humus idrico fallace  ed instabile (“ti ho avuta fra le braccia per le astruse golosità del sogno e per languide vie d’acqua son scivolato al tuo fianco”).
Il mattino ridesta l’amante e la sua luce lo gorgonizza forse nell’immagine di un letto inopinatamente monco della compagna notturna (“impietrito dall’insolente accoglienza del giorno che suonava la dolente melodia della tua assenza”). La mixis di melos e odè, che scandisce struggentemente nel cuore dell’amante la visione del talamo abbandonato, si tronca e questa interruzione (“la cesura metallica”) ha un rimbombo (“l’eco si alzi fedele”) che evoca immagini di macabra impiccagione della pulsione sessuale (“pur se da argentee volte scenda lo scorsoio per il collo del desiderio”).
Il poeta rimbalza d’immagine in immagine, di metafora in metafora e l’ermeneuta si affascina in questa inesausta sorgiva psichica, interrogandosi sulla correttezza esegetica che quelle rappresentazioni gli suscitano; il riecheggiare della brusca sospensione della miscellanea di note e canto è al contempo eziogenesi del cappio sulla spinta erotica e cesura essa stessa di una sorta di inaugurazione del legame sentimentale, fotografato dagli elementi cardine di essa (una mano, un paio di  forbici, un nastro).
Questa pausa irridente ed irriguardosa, scandita dal mattino con la sua luce rivelatrice insolente, genererà, però, immediato affrancamento nel maschio piagato e pur sempre anelante la libertà (“il mio corpo ribelle risorto dalle segrete della materia improvvida”, a sottolineare che la carnalità non è mai prodiga per i suoi fruitori, coinquilina com’è di una sotterraneità oscura che si dissolve al chiaror del sole).
Ma la delusione è come un ordigno inesploso, un monolitico proietto che si fa beffa dello scagliatore, del suo artigliere, condendo la disillusione di scaltrezze che hanno identica tipologia ed origine nella lussuriosa pancia di ogni essere vivente (“ancora rotolerà la bomba che attraversò i tuoi salotti melliflui, beffarda  magnificenza memore dell’astuzia odissea racchiusa in egual ventre mortale”).
Questo è lo sforzo individuale e soggettivo dell’approccio ad un poeta che vive di figurazioni e simbolismi e chi lo tenta deve esser conscio dei limiti ermeneutici, trattandosi di un’opera sofferta di cui solo l’autore è pienamente in possesso!
Ma l’ermetismo non è omogeneamente sigillato ed inaccessibile. A volte il poeta produce metafore ben più agilmente fruibili e dipinge atmosfere intime più agevoli da discriminare e confrontare.

Si pensi a Fiori perduti dove è più da topos lirico l’immagine della mìxis en ànthesin: Guglielmo Campione ha chiaro sostrato classico e Omero ed Archiloco qui rimbalzano nella sua memoria, ma l’originalità sta nell’associazione fiore-amore-primavera-donazione in sottintesa antitesi con terra spoglia-odio-inverno-malvagità.
Gli abbinamenti psichici sono frutti soggettivi ed è sintomatico che altri autori possano intravvederne l’opposto a seconda del dettato della propria vita interiore.
 A chi recensisce è capitato di leggere poesie molto più semplici di stampo vernacolare dove la stagione calda viene descritta come un anatema da rifuggire (Ch na femmn da pccat/ cuss viirn m so  aggegghiat/ ogne sabt ‘n gann a mar/ m sckattav sta chmmar/ Mo ca venen l ceras /com jà fa a dart l vas?).

Vi è un’altra perla della 1^ Sezione in cui il poeta ribadisce le antitesi concettuali e le accelera volutamente quasi a creare un effetto choc nel lettore.
In Sole etiope l’exordium col vocabolo “solitudine” suggerirebbe immagini tetre e fredde più congeniali e succedanee ad esso; invece, inopinatamente, l’abbandono brucia più di un’estate africana passata sugli altopiani inariditi ed abbagliati dall’astro del giorno. Che cosa rimane del ricordo di chi si è amato? Una chiostra dentale che ipocritamente simula, attenuando un volto paludato di personaggio drammaticamente vestalico e intimamente insensibile. Ciò che sopravvive è un “Io” assorto e muto in un balletto di danza classica che non ha nemmeno il parquet saldo e contiguo alla performance, ma la liquidità di una scioccante e pervicace paura del presente. Qui le ermeticità e i simbolismi si sublimano e nel contempo si fisicizzano in figure retoriche di eccellenza e ne rampollano sinestesie (“La solitudine è più cocente di un sole etiope”ovvero “il silenzio danza in punta di piedi” ) e paradossi (“ sulle acque del mio ostinato tremore”).

In Un giorno qualsiasi di questi maledetti (item che in chi legge pare riecheggiare le atmosfere abbaglianti della mitica “Summer on a solitary beach” istoriate mirabilmente da Battiato, altro sublime Ermes lirico-musicale) l’abbandono ha frantumato la compattezza abbinante e vitalistica del poeta rimasto orfano del suo legame sentimentale; la fragranza del pane, il profumo dei fiori, la potenza delle onde, la pienezza dell’esistere: questa la sequenza del passato vissuto in coppia. L’oggi è frantumazione, spoliazione, solitudine e anatema. E formalmente è interessantissimo notare la transitivizzazione di un verbum affectuum come “gemere” (“briciola di pane gemente ancora pane e rose”) che mutua il semantema dell’implorazione e dell’elemosina.
Eppure, fuit quoddam tempus cum poeta plene gaudebat amore;

lo si intuisce in “Africa”, flash mnemonico che sintetizza mirabilmente l’affresco della natura lussureggiante e lussuriosa, con la contiguità della voglia esplorativa traboccante e la simbiosi languida del calore atmosferico e sensuale: ”Africa negli occhi e tu nel cuore: palme tra le dita le tue burrose gambe”.

Dopo, L’abbellitore fisicizza la paratia tra i due amanti attraverso un diaframma ideologico e d’approccio esistenziale probabilmente rivelatosi in corso d’opera. Troppo materialista la femmina per un maschio che ha inneschi interiori travalicanti la razionalità, il calcolo? Troppo matura lei per un infante gravido di speranza? “Soprattutto non fingere negli affetti, e neppure sii cinico riguardo all’amore; poiché a dispetto di tutte le aridità e disillusioni esso è perenne come l’erba”: rimbomba  nella modalità dell’autore l’eco delle parole del Reverendo Frederick Kates, rettore della chiesa di St. Paul, a Baltimore, Maryland, divenute famose in tutte le lingue e in tutto il mondo: Di certo le metafore che sgorgano rincorrendosi sottendono un’ineluttabile dicotomia antipodica tra i due protagonisti, uno stare in vita bipolare fatto di cuciti, collanti e cosmesi inesausta verso il prossimo per lui, intessuto di arido pragmatismo monadico per lei e il desinit è estrema sintesi di questa concettualità in antitesi: chi usa il cannocchiale del cuore ha lungimiranza prospettica nel vivere, al contrario di chi non può vedere luce astrale in un’esistenza “guardata” a corto raggio con occhi nudi e materiali! L’autore ci perdonerà, ma l’enfasi e l’abbraccio intimo di questa sua mirabile lirica antinomica dei due mondi, ci spinge a seguire una traccia che egli in nuce ha già seminato negli anfratti del suo afflato poetico e provare a “vertere” in rima le sue stupende ed originali immagini interiori:

Sono l’abbellitore, restauratore ed imbellettatore,
quello che parla la parola del Creatore,
delle illusioni il pidocchioso cantore.
Abbellitore e sarto testardo e per la verità lupo dal pelo irsuto
di latte puzzo, io, idealista cocciuto.
Stelle io aggiungo col binocolo truccato
e meraviglie al tuo cielo spogliato.

Umori alcolici ed oftalmici in semantica mistione ed accoppiamento nel penoso toast di un cuore abbandonato ne ”La lacrima e la goccia”. E come una massa di leccornia amarissima entrambi lievitano e non possono esser nascosti. Eccesso di dolore e dei suoi falsi antidoti: un topos gestito qui dall’autore con un’originalità che si materializza nella fugace visione finale del fianco ispido del viso.

In ”Danza norvegese” il respiro dell’uomo e del professionista cittadino del mondo vivifica la miscellanea ambientale ed umana e colora significativamente le conoscenze che ne hanno attraversato il transito terrestre; così il gelo della Scandinavia e della sua fauna ittica sembra liquefarsi nel contatto carnalmente mediterraneo dei due amanti (“Ho la tua mano spagnola nella mia”, raffinatezza contenutistica e formale: non è da tutti usare disinvoltamente un’ipallage!). D’incanto un sistema cardio-circolatorio ibernato in arterie e vene a immagine di depositi scarsamente igienizzati prende a ripartire e a ribollire (“il sangue si discioglie per un timido miracolo. Nelle teche impolverate silenzioso e rapido sento il flusso arrivare”).

Nella successiva, “Musiche senz’eco, di nuovo torna l’immagine del talamo a funzione “usa e getta” e le lenzuola modello kleenex sono lo specchio della vacuità di una carnalità mai vivificata da vero sentimento; le note non lasciano traccia nei cuori di entrambi, ma solo un suono che scivola via dalla mente e dall’anima!

Poi, ne La ragnatela che resta, per la prima volta ermetismo e simbolismo riescono a coniugarsi con metrica e assonanze ritmiche e l’esito non è affatto malvagio. Il poeta colora di tecnica il suo mondo interiore già naturalmente variopinto:

Nella sua voce c’era un calore
che dal petto a salutare si sporgeva il cuore.
Ma col passare del giorno
gli emigranti del dubbio fecer ritorno.
L’anno che venne poi arrivò una paura
che colorò il mondo di nero sciagura.
Così ondeggiando al vento come una vela
di lei non restò che fin ragnatela.

Quando il cuore è disabitato, al suo interno, come in una casa abbandonata e sporca, non restano che le tracce della presenza degli insetti: tutto è distacco in questa potente melodia lirica scandita dai concetti contigui di emigrazione, dubbio, paura, sciagura, vela e ragnatela e connotata di desolante infinita tristezza.
Fin qui la prima sezione della silloge intitolata “Amore e disamore” in cui la metabolizzazione del ”cibo” d’amore è soggetta ad un rallentamento sofferto e contrastato.
E’ un Guglielmo sentimentalmente ancora adolescente e il vulnus amoris non si cauterizza  facilmente.

Nella II Parte, ”Amore e Psyche”, l’uomo va lentamente, se così si può dire, mitridatizzandosi al venenum amoris; i due amanti vivono una dicotomia perenne e sembrano sfuggirsi infinitamente, quasi che una forza soprannaturale si frapponga ad ostacolarne il pieno possesso reciproco, la profonda compenetrazione dell’uno nell’altra; il mito va riletto per comprendere appieno la rielaborazione intima della sofferenza d’amore, dell’alternanza ineluttabile di eros  e thanatos. Come i due amanti del mito possono goder l’uno dell’altra, l’uno nell’altra nottetempo, così le liriche di questa sezione aprono lo scrigno della lotta endogena che genera nel poeta la dualità dell’amore. Ma i contrasti, il risentimento, il rancore vulnerato della prima sezione sembrano lasciare il passo ad una rassegnata pur se dolentissima malinconia, all’assuefazione di chi ha oramai cicatrizzato le piaghe e non se ne sconvolge più.

September on my mind: settembre schiude le porte alla mestizia, anticamera dell’uggioso autunno in ineludibile pendant con la transitorietà dell’amore. Le spezie aromatiche e piccanti sembrano controcanto alle dolcezze del frutto della nostalgia di chi si è perso. L’autunno fisico diventa simbologia di quello del cuore e la caducità delle sue foglie apre la metafora della soluzione al gordianesimo della mente che invano s’interroga.

T’incontro, m’incontro: lo struggimento cede il transito alla rassegnazione verso qualcosa d’inevitabile e l’autore pare oggi crogiolarsi in un “Io” che ha imparato a gestire le sconfitte. Venga o no il rendez-vous con l’amata, già il desiderio di rivederla è dolcezza e cullare quest’esigenza è di per sé linimento. L’uomo maturo sa esser meno impulsivo e più indulgente verso sé stesso. Imbattersi in un’aspettativa intima è già balsamo al dolore, ove essa non si realizzi. Il poeta sembra una sorta di padre amorevolmente comprensivo nei confronti delle proprie recalcitranti pulsioni più bambine e genuine ed è sintomatico che la sintesi di tale stato d’animo si concretizzi in chiusura con una dolcissima litote attenuativa (“non può non farmi felice incontrarmi con un desiderio così sia che t’incontri davvero sia che incontri solo me”).

Chiudi i tuoi occhi: meraviglie, fiumi, monti, fiori, bestie in calore: donna amata e natura paiono in simbiosi e la femmina agognata ha la misteriosità e l’inattingibilità sacrale e nel contempo rivitalizzante dei fenomeni naturali più affascinanti. Buio e bagliore, sussurro e scroscio d’acque rigeneratrici, urla e ninne-nanne: il gioco sapiente dei contrasti si fa sema, concorde relazione tra pulsioni fisiche dell’amore e riflessi psichici di esso in una rinnovellata fiaba di Amore e Psyche cui la sezione dà il titolo.

Liquida e cangiante: l’accoglienza connaturata alla muliebrità vivisezionata in contrasto alla mutevolezza psichica fisiologicamente altrettanto femminea brilla di originalissima luce nella similitudine della sorgente idrica iridescente nel quotidiano avvicendarsi atmosferico. Ad essa fa controcanto la penetratività maschile in sapiente metafora solida rocciosa ed aspra, in perenne ricerca del riflesso androgino. L’eco del mito platonico pare insopprimibilmente rimbombare!

Dove finisci tu: torna incoercibile l’ansia dell’incontro-confronto con chi si ama, scandita da una verosimile alternanza monologico-dialogica che aspira intensamente alla reiterata ricomposizione androgina. E’ l’invidia degli dei, per dirla con Platone, che separa la coppia mandando Ermes messaggero paludato dentro l’infantilismo di una Lei o l’immaturità capricciosa di un Lui? E’ lui il theòn  àngelos che seppellisce la gioia, determina isteria e genera il mistero? L’autore sa che il mito sottende l’arcano di sostrati psichici di non facile decrittazione e i suoi interrogativi sono l’angosciosa meditazione sui temi della transienza dell’amore.

Surrender Blues:

Surrender Blues

By Gregg Inhofer

I got out of the driver’s seat. I said, hey listen man. I got to cool my feet. So gimme a minute to untie my shoes and I’ll tell you ‘bout surrender blues. I don’t know where it all began. I was a mess I think, at least that’s what I hear from my friends. My soul didn’t know if it was dead or alive, but I’ll tell you what I didn’t do. I didn’t surrender. No, I didn’t surrender. I couldn’t remember that I didn’t drive that well. So I picked up my own butt and climbed back into my rut. I was drivin’ myself and that car down the highway to hell.....o, it’s me again. Your helpful neighborhood ego, masquerading as your best friend. So throw me those keys and let’s go for a spin. Don’t tell me you won’t try it ‘cause your parents wouldn’t buy it it’s a sin.....ergy is what we need here. We need to establish a connection that is crystal clear. But lemme just warn you what I’m all about. I’ll leave you when you’re down and out. But I didn’t surrender. No I didn’t surrender. I still couldn’t remember that I didn’t drive that well. You see, I was gonna be a rock star. Play by night ad sleep by day. Then one day I looked into a mirror. And I nearly fell over from the sheer shock of realizing that yes indeed skin does wrinkle And my hair was turning gray. I turned ‘round and ran out from the room. I laid down on my bed, I felt like I was back in the womb. And that’s when I voice said you should be glad you’re alive. So throw me those car keys, fool, so I can drive. And so I surrendered. You bet I surrendered. I finally remembered that I didn’t drive that well. Now I sit by the window watching the wind blow. I finally surrendered, yes I did, to the surrender blues.

Abbandonarsi, giocare, sguinzagliare la fantasia per non arrendersi ad uno sbiadito e sciatto calcolo razionale. E di nuovo la fenomenologia atmosferica africana, che il protagonista deve aver vissuto a lungo, torna ad esser rappresentazione vitalissima dell’opposizione al computo, della resa alla natura con i suoi  messaggeri inarrestabili (tamburi, palme, banani stuprati dolcissimamente dall’eros violento ed eiaculante di uragani, piogge, tropicali e cieli neri) e ancora lo specimen di Amore e Psyche riecheggia nel riflesso di una sorta di terra muliebre che casta inceste, per dirla con Lucrezio, si offre innocente alla penetrazione delle forze della natura. In questa ricerca di capitolazione nei confronti delle pressioni vitali dell’animo, dell’eu daimon psichico, il cervello, la ragione assume le sembianze del Male, del kakudaimon, semanticamente scritto con l’iniziale maiuscola (“di nuovo prigionieri di quel Diavolo del cervello!”). Fisiologicamente le immagini altamente e specularmente simboliche di eros physis, contenutisticamente elevate, geminano elevata formalità condita di sinestesie (spiriti fluidi, insipida concretezza) ed ossimori (accarezza sferzando).

Giungla elettrica: tra paradossi (amori mai amati, nemici mai odiati) ed ossimori (debole superbia) emerge per la prima volta un Io disperante e disperato che si rivolge alla divinità sconvolto dall’incomunicabilità umana, non più circoscritta al rapporto maschio-femmina, ma debordante in ogni relazione sociale. Le paratie sollevate tra gli esseri umani diventano le barriere naturali che l’Africa selvaggia ha già insegnato all’autore con le sue sequoie, liane, anaconda e zebre. L’interlocuzione con la donna è un gravame oppresso da strutture metalliche che imprigionano la spontaneità primitiva.

Gli uomini si ammalano: il dramma della monadicità che si fa ingravescente con l’età che avanza urla la sua disperazione. Spes e fides svaniscono dietro un taedium che vanifica le capacità di discrimen. La scelta del romitaggio, dell’uomo eremita di sé stesso miete le prime vittime innocenti: la femmina, madre o compagna che sia,  destinata ad esser sola ed incompresa.

Di te non racconti più nulla: acqua e sole, liquido e calore sono i penetratori della femmina, suoi amanti di regola complementari e co-funzionali ad essa. E invece qui il poeta li vede scissi e rivali l’uno dell’altra. Ma il microfono è in mano ad uno solo dei due contendenti, all’acqua capace di ingravidare la terra a differenza dell’astro giornaliero che è arido e improduttivo, in grado di essiccarne ogni fecondità! E’ una lirica sensibilissima ed originalissima che probabilmente riflette una triangolazione individuale patita dal poeta con un altro lui ed una lei sicuramente infida. Anche qui l’elevatezza del sentimento approda ad
un’eccellenza tecnica generatrice della seconda esperienza rimata, seppur scazonte all’ultimo verso. Ipotesi restaurativa per l’ultimo distico:
quando una goccia, leggiadra ancella amata,
di nuovo per l’aria gemendo ti vedrà bagnata

Gli uomini chiudono: c’è tutto il termocauterio delle piaghe d’amore e tutta l’accondiscendenza fiera ed orgogliosa del maschio finalmente maturo ed indipendente. Riecheggiano le struggenti parole della canzone di Zucchero: ”Non ho più paura di restare senza una donna!” La luce crepuscolare è l’innesco di un ricordo dolcissimo, ma oramai cicatrizzato che apre il varco a nuovi incontri, nuove sfide per gestire una solitudine che da grandi non terrorizza più, pur nella presa di coscienza della sua infinita durezza! Ci vuole coraggio per affrontare la grandezza, la ricchezza, la bontà e la crudeltà del mondo che ci attende nella nuova dimensione del single, ma la sorpresa di ogni nuovo incontro vivificherà il maschio rinato.

Casablanca: di nuovo il tramonto in chiusura di Sezione. La favola di Amore e Psyche nel suo tremendo chiaroscuro, nella sua soffertissima dualità amore-luce/tenebra-morte trova il suo fregio al tempio perennemente innalzato ed incrollabile della pulsione androgina. E lo sfondo del crepuscolo marocchino incendiario riempie la tavolozza dei pigmenti carnali e spirituali della coppia. La vista, l’olfatto, l’udito, il tatto suonano una sinfonia scenografica ultimativa alla giunzione creo-psichica dei due amanti. E di nuovo in clausola i temi della resa, il desiderio di naufragio nel vortice dei sensi in quell’incontro scandito dalla perizia tattile di una sorta di sartoria dell’amore, esaltata dalle metafore tessili suggerite dalla sensualità dell’amata il cui corpo è all’unisono velluto, bisso e seta! (“tra pelle e cuore nessuna distinzione”: di che anno sarà questo componimento? Chi è l’ante litteram tra Campione e Venditti?).


Ed eccoci approdati alla III Parte, ”Amore e Divino”, dove il viaggio del poeta travalica l’interlocuzione del dramma (nel senso di rappresentazione scenica quotidiana) d’amore per accedere a percorsi e paesaggi meditativi che incombono nell’età matura ed affiora una ragguardevole capacità analitica e contemporaneamente un’attitudine alla fotografia di sintesi di tutti quei valori, apparentemente silenziati o fisiologicamente assenti nell’età giovanile, ora in emersione a mo’ del riflusso di un’onda dolcissima ed al contempo inarrestabile: l’acqua come elemento primordiale catartico e vitalizzante, la terra d’origine, con i suoi umori, colori, odori e tradizioni, abbandonata per ragioni di sopravvivenza, ma a cordone onfalico intranciabile, la riflessione sull’infinito, specchio dei propri conflitti interiori di cui l’antinomia apparente di sguardo esteriore (ophthalmos) e occhio psichico (thymos) rappresenta simbologia pregnantissima, il figlio, il tempo.

Le quattro stagioni della Ninfache simbologia sottende la Ninfa di questa lirica scritta con la metrica dal cuore d’Ermes che batte nelle vene dell’inesausto poeta? Di quali timori Ella è fugatrice? Forse della caducità del corpo e della pulsione sessuale simboleggiata dalle quattro stagioni? Il poeta traccia un suggerimento per la pausa alla sofferenza, la strada del cuore è l’unica che può travalicare e nobilitare gli istinti giovanili in una cognizione del soffrire che forse solo la maturità insegna. Ermes-Guglielmo si dilata e si schiva, crescendo e maturando, e lascia spazio a nuovi orizzonti di potenzialità poetiche, magari inesplorate agli esordi, confezionando qui un carme di 24 versi a rima baciata e 4 di sagace cesura a rima alternata.

Di svelar io non temo la segreta mia Saga.
ma fugar voglio presto il timor d’una piaga.
D’ogni cosa parlar poi si può banalmente, in gran conto e di fretta
oppur scriver delle cose più rare lentamente e con prosa perfetta.
Per mio stile io non scelgo la prima
preferendo parlar di avventure,
così canto il mio sogno con rima
per scacciar ogni po’ di paure:
ero d’Aprile in un campo di grano
con la schiena adagiata su d’un bel Melograno
quando una Ninfa vien dal Paradiso
a cantar del suo cuor con un dolce sorriso.
Più tardi in Agosto la più calda stagione
nello Stretto fatal mi trovai s’un barcone
a sentir la mia Ninfa s’uno scoglio distesa
pizzicar la sua Arpa con un cenno d’intesa.
In Novembre nel bosco
che più non conosco
mi trovai poi d’incanto perduto e impaurito
a trovare la strada seguendo un suo dito.
Ora in Gennaio di fronte al camino
seduto all’indiana su un enorme cuscino
ascolto la sua voce venire dal fuoco
pregandoci tutti di star sempre al suo gioco:
se c’è forse un sol modo di serbare il bambino
è questo poi l’esclusivo cammino.
Quanto infatti cerchiam di evitare il dolore
strada non c’è se non quella del cuore.



Del divenire delle cose e delle sensazioni”: l’occhio ha perso la tridimensionalità e non riesce a penetrare la profondità e l’altezza del vivere; la lama dello sguardo ha deposto l’acumen e l’affilatezza. Chi darà ossigeno alle pupille del poeta? L’animo indica la soluzione: bisogna tornare ad esser madri fertili nel cammino dell’umanità e della terrenità che ci circonda, per evitare il naufragio dei sentimenti e la loro deriva.

Degli orizzonti che periscono: di nuovo occhio e spirito in penetrante dialogo. Le sensazioni monche e decolorate del primo bramano ermeneia dal secondo. E’ notte fonda per lo sguardo, la luce pare tramontata da un pezzo. L’animo si autoaccusa per la retroflessione patita dal suo partner: ”Povero illuso! Credevi di essere autonomo nella visione, invece l’eziogenesi della tua docimologia visiva è in me. Sono stanco di ricamartela e adesso vedi solo la bruta stoffa grezza e mai più lavorata!” E’ lo spirito la nostra luce. Se esso si spegne, per lo sguardo è buio pesto! “Mai introflettersi!”, suggerisce il poeta.

Finis Terrae: qui si apre tutto il caleidoscopio del Guglielmo sub innamorato e lo stazionamento sul molo innesca le sensazioni più profonde e coinvolgenti: l’oblio del caos di città, la resa alla luminosità del cielo o all’oscurità della notte, il buio mezzano e ruffiano delle pulsioni erotiche più forti, l’immersione e la caccia alla fauna marina per l’eccitabilità del palato in un inopinato anelito ricompositivo androittico presago di una fine quanto più demolitiva e dispersiva si possa immaginare! Originalissima l’immagine da Ring Komposition finale: noi che avemmo i pesci in pasto andremo in pasto ai pesci, una volta  morti, in un’anularità riconciliativa.

Cieli notturni 1: vira l’occhio del poeta sull’Infinito e il suo ophthalmos ritrova la profondità, poiché l’animo sa che ciò che passa lascia tracce non sempre dorate interiormente ed il manto celeste notturno pare metafora della transienza e degli incroci umani nel quotidiano; vano è dunque l’esprimer desiderio se la scia meteorica è mero infingimento di una coda stellare.

Fedeli seguaci di Apollo: sembra un passaggio di testimone tra un tempo giovanile che fu dionisiaco e un tempo maturo che è apollineo: cieli, angeli, fiori, una sequenza luminosa e soave in severo contrasto con l’anelito di fuga dal fuoco che ancora separa dalla cristallinità refrigerante e catartica della creazione lirica.

Polvere di stelle: polvere, neve, notte, sonno, silenzio e morte: mai il poeta è stato così assorto e meditativo! Il Guglielmo vitalistico e dionisiaco delle prime due sezioni lascia il posto ad un uomo maturo che pare non più affascinato dalla pulsione androgina, ma che impara a prender dimestichezza con i misteri dell’Infinito.

Dimmi che un giorno risorgeremo: la struttura penta-imperativo-esortativo-dichiarativa si dipana in cinque quadri evelpistici  contigui ed allacciati logicamente, semanticamente ed apotropaicamente nell’attesa di un’anastasis non solo escatologica e carnale da fervente credente, ma omnicomprensiva, nell’ansia del recupero finale di quella terrenità nostalgica che è stato il filo forte del tessuto vitale dell’autore. Assieme ai nostri corpi dovranno risorgere gli elementi naturali che li supportarono vivificandoli: sole, vento, almi patres delle giovanili promesse, l’arcobaleno dissolutore delle angosce di resa; e con la loro risurrezione si corroborerà la certezza dell’evaporazione della perdita della speranza, dell’accensione della camera combustiva di ciò che si fu, da ricomporre in una rinnovata mistione pittorica e la sicurezza definitiva di ritrovarsi sotto dimensione spirituale, rifocillati paternamente nella grotta della Meta finale di questo romitaggio terrestre. ”Straripanti promesse accartocciate, aridi silenzi e assenze, la fornace del ricordo”: una lirica così simbolistica non può che abbarbicarsi alle sinestesie più disinvolte e aderenti all’afflato creativo dell’autore!

Acqua: palinodia ricapitolativa dell’elemento principe della vita e della floridezza del pianeta in una sintesi mitologica, storica, geografica e scientifica dove l’autore travasa  tutto il suo sapere e lo dona al lettore senza saccenteria e prosopopea. Profonda è l’episteme dell’autore in rapporto speculare al bathy ydor che egli istoria in analisi e sintesi mirabili!

Terra”: sembra lontano il poeta dalla mitica terra natia, l’Apulia alma mater, ma l’orma dei piedi, che batterono ventennalmente quelle superfici indimenticate e mai rimosse dall’humus dell’uomo, ha lasciato una traccia indelebile nell’eredità culturale e umana di Guglielmo e tutto il suo essere, tutto il suo esistere sono un lascito inestinguibile, un ktema es aiei che egli non solo porta impresso interiormente, ma che travasa da una vita nella modalità dell’ascolto, accoglienza, e comprensione. Egli odora intimamente di zolle, cicale, eucalipti, granchi, lucertole, chianche, ulivi, marosi, papaveri e spighe. Di rado ho letto sintesi più mirabili e pregnanti della nostalgia, etimologicamente, il dolore per la privazione del ritorno! Guglielmo Odisseo!

Semola e incenso: gente estranea di Bari, prendete questo pinax lirico e appendetelo nelle vostre case! Questa è la fotografia olfattivo-psichica di chi esce dalla Basilica del Santo Patrono. Non vi è terra che mischi più carnalmente il sacro col profano in una giunzione purissima ed aureolata! Il Santo attiguo ai vicoli di quelle case di quei marinai che andarono a rapirne le ossa a Mira, annusa l’odore dei panzerotti, del ragù ”tetrasarcino”, delle case prive di fogna, delle alghe del Lungomare e ne sublima gli effluvi con l’incenso del tempio. Bari, San Nicola: cordone onfalico irrescindibile! Torna in mente Baudelaire: “Les parfums, les couleurs et les sons se répondent!”

« Lava i tuoi piedi »: il lavacro della Messa in Cena Domini, istitutivo del ministero sacerdotale, pare simboleggiare uno spirito di servizio anelato dal poeta da parte di qualcuna/o che ha da tempo la mente inviluppata nell’arroganza. Desiderio di liturgia, di servizio, di umiltà da tempo sconosciuti in un mondo monadico ed egoista?

Grazia: di nuovo anelito e invocazione all’elemento acquatico vivificatore della vita dell’uomo sulla Terra. L’acqua è un dono gratuito per l’essere umano e la sua apparizione è foriera di sensazioni di calore, gioia, accoglienza e pace.

Benvenuto enfant: ed ecco la sfida del figlio venuto in tangibile benedizione dal Divino ad accendere l’innesco d’immortalità di ogni padre, con la preziosità di un gioiello che, ancorché muto, parla al cuore di chi l’ha generato, fornendogli il calice di un liquore inebriante e stimolante. La potenza sintetica di quest’analisi delle sensazioni merita un brevetto. Guglielmo davvero Campione della fotografia dell’animo!

Alone under the sky: sembra di risentire la pulsione androgina, il mito delle mele che sono il simbolo principe del dyo en eni, della sfericità, della rotondità. E sintomaticamente la sinfonia di fondo in queste sensazioni viene nuovamente suonata dall’altro elemento che catalizza le pulsioni ansiose del poeta: l’acqua generatrice della vita, liquido amniotico a cullare il dyo che diventa en.

Tempo che fugge: la corsa del tempo ci coinvolge a dilatare o saturare gli spazi divisori tra i sentimenti umani. Il tempo ha un ritmo autonomo che prescinde dai suoi strumenti di misurazione,  una compattezza che si fa beffe della fragilità cartacea di un ebdomadario, non ha padroni, non ha proprietari, non ha legittimi né legittimari, è intrattenibile e ingombra col suo moto inarrestabile le ansie e gli aneliti dell’uomo. Non v’è antidoto alla sua fuga, poiché ogni riflessione sul passato, sul presente e sul futuro ci rimanda ad esso, alla sua eterna ribellione, al suo continuo dispetto, al suo essere intransigente. L’acqua, la terra, gli amori: Guglielmo ha narrato amici ed avversari pronti a dare e ricevere carezze e cazzotti. Il tempo è imbattibile, un avversario che ti lascia con le ossa rotte.

Quel giorno a Santa Cruz: quale immagine più congrua della ricerca dell’elemento primordiale se non un flash mnemonico scattato alle Isole Canarie? Onde che bramano uno schianto dolcissimo col corpo umano, visioni di corpi annegati e inceneriti nell’attesa della ricongiunzione eterna con la  thalassa meter che vengono paradossalmente a farsi oggetto di fqÒnoj da parte  di chi è in vita. E di nuovo il poeta canta questa sua ansia di ricomposizione anulare con l’elemento protogenès già mirabilmente istoriato in “Finis Terrae”.

Così venne la nostra ora: ultimativa, la Guida alpina diventa simbologia pregnantissima dell’ultimo salto: la salita sulle Tre Cime di Lavaredo con lo specchio del verde catino sottostante è vettrice di un brivido di trapasso che il poeta lascia volutamente irrisolto. Ma è il diktat definitivo del Duce alpestre il risolutore delle angosce in un afflato infinitivo raggelante e consolante al contempo: “La visione di chi è dietro di Me si deve necessariamente omologare alla Mia!

Dialogo segreto”: dalle secrete del fratello mare il subacqueo creativo colloquia col liquido amniotico ripetitore della primordialità rinnegata alla nascita. Il germano urla ribelle una sorta d’ira rancorosa per il distacco dell’uomo e questa rabbia si fisicizza nei giorni di tempesta a chi immergendovisi tenta invano di suturare la piaga purulenta del tradimento e della separazione. Il dialogo della maturità con il mare amante tradito sembra la palinodia di quelle dicotomie vissute dal Guglielmo giovane con l’elemento donna. Conoscersi profondamente entrambi non giova ad una ricomposizione, ma proprio quell’exordium (“Lo so come sei”) gronda rassegnazione.

Pietra grezza: la lettura dell’Esodo si fa riflesso della meditazione del poeta sull’intima ed individuale liberazione dalla schiavitù. Ognuno di noi è stato un piccolo e grezzo Mosè e potenziale diamante anche in virtù dei servigi che una qualunque Memnet ha pattuito con chi ci ha salvati, accolti e custoditi in attesa dell’apertura del nostro Mar Rosso! Episteme e individualità in Guglielmo sono sempre in rapporto speculare! Mitologia, Sacre Scritture son tutte rielaborate in maniera fisiologicamente didattica ed epidittica!

Visita Interiora Terrae: e alla fine del percorso simbolistico-ermetico, fregio al Tempio con il famoso VITRIOL, acronimo temutissimo dagli alchimisti. VISITA INTERIORA TERRAE – RECTIFICANDO INVENIES OCCULTUM LAPIDEM: è l’invito finale al termine del tragitto di Guglielmo dottore dell’anima, subacqueo, poeta, marito e padre; una poliedrica creatura tesa a indagare incessantemente l’anima e lo spirito ai fini di una purificazione escatologica.
E nello scavo interiore ci ha accompagnato sintomaticamente in tutto il libercolo proprio il fine della ricerca, quell’Ermes misterioso di cui parlavamo in introduzione, il maestro di ogni conoscenza recondita ed alchemica.
Sole, Luna, Acqua, Zolfo, Mercurio: li abbiamo trovati tutti in questo percorso, scanditi dall’impulso yin e yang e scortati dal linguaggio ambiguo di Ermes che contiene in sé  le due nature!

In chiusura di questo cammino entusiasmante alla scoperta delle profondità e delle ambiguità di Guglielmo ci sia consentita una docimologia strutturale compositiva dell’opera; il poeta, l’uomo, il professionista Campione, che abbiamo l’onore di conoscere da bambino, non poteva, nella sua poliedricità e complessità interiore, non essere pitagoricamente armonico e proporzionale nel suo prodotto. L’opera si compone di 53 poesie distribuite nelle tre parti che la strutturano in questa successione:


-        18 in “Amore e Disamore”;
-        12 in ”Amore e Psyche”;
-        23 in ”Amore e Divino”.


Orbene la somma delle poesie della Parte II e della Parte III (35) è in rapporto aritmetico(1,5) con le poesie della Parte I (18).




                                       
Chiosiamo felici con le parole dell’architetto Leonardo Celestra a riguardo di ogni struttura notabile: “Quando parliamo di estetica compositiva, sia essa architettonica, pittorica, musicale o addirittura frutto della natura, parliamo di proporzione e di misura. La bellezza non è mai elemento intrinseco di una singola unità, ma è il frutto dell’accostamento o del frazionamento proporzionato, dove più elementi, posti in relazione, generano una nuova unità percettiva. Come una parola ha senso preciso soltanto in rapporto ad altre, così l’estetica compositiva necessita della rottura dell’elemento unitario in più elementi in relazione fra loro. Nel relazionare elementi, all’interno di una composizione, possiamo ottenere degli accordi o dei disaccordi, a seconda se essi son relazionati in maniera armonica o disarmonica”.

Come le singole poesie si rincorrono intersecandosi e correlandosi, così la struttura compositiva de ”Il lungo cammino del fulmine” risulta mirabilmente accordata nelle sue macro componenti!



 E’ stata un’avventura bellissima scoprirlo!

Follia e crimine nella letteratura gialla : Il problema sbagliato di John Dickson Carr . Recensione di Piero De Palma.


               

The Wrong Problem nell’ambito della produzione di racconti di Carr, rappresenta uno dei suoi migliori lavori . 
Tuttavia, quello che non tutti sanno, è che il racconto, nella sua versione definitiva, è la ritrascrizione di un radiodramma da lui scritto, “The Devil in the Summer House”, andato in onda in periodo bellico, alla BBC, il 14 ottobre 1940, in una puntata di un’ora; successsivamente, il radiodramma fu ridotto a mezzora, e presentato nella serie radiofonica “Suspence”, ma privato del personaggio di Gideon Fell. Quest’ultima versione, fu pubblicata in E.Q.M.M. nel 1946.

Il luogo della vicenda è un padiglione, in cui avviene un delitto impossibile, ma i personaggi sono diversi.
Entrambe le versioni furono poi pubblicate nell’ambito di una raccolta di racconti di Carr, introdotta da Ellery Queen: Dr.Fell, detective, and other stories (Mercury, New York, 1947). Oltre a questi due suoi lavori, erano presenti anche: The proverbial murder, The locked room, The hangman won’t wait, A guest in the house, Will you walk into my parlor?, Strictly diplomatic.

Le fonti non chiariscono veramente quando questo racconto sia stato pubblicato in origine: alcune indicano il 1936, altre il periodo bellico (1940?) altre ancora dopo. Io, per una sorta di rassegnazione al male, che si intravede in numerosi passaggi, propenderei per la collocazione bellica, anche per una evidentissima tristezza di fondo che condivide con un capolavoro, scritto anche quello in periodo bellico, di Carr.

Gideon Fell e L’Ispettore capo del C.I.D. Hadley stanno passeggiando, quando arrivano nei pressi di un lago su cui si affaccia una villa, e nel quale, su una minuscola isoletta, c’è un pergolato di bambù. 






Lì vicino c’è un ometto vestito di nero, con gli occhi leggermente a mandorla ed i capelli bianchi lunghi ed un cappello di stoffa bianco.

L’ometto, appena li vede, chiede se si veda un cigno sull’acqua, un cigno morto con la gola squarciata; ma i due non riescono a vederlo.
 E’ il la, per una storia che quello narra ai due ospiti occasionali, capitati per caso in quella proprietà i cui proprietari da lungo tempo non sono presenti: la tragedia di una famiglia, formata dal padre Harvey Lessing, oculista e dentista, e dai suoi 4 figli, di cui tre di primo letto (moglie morta nel 1899) e un altro acquisito, già diciassettenne, con secondo matrimonio nel 1901, una famiglia in cui la morte si era affacciata già due volte prima, con la morte delle due mogli del capofamiglia, ma in cui si affaccerà altre due, con due omicidi impossibili.

Il fratellastro maggiore si chiamava Brownrigg ed era dentista, come il padre: aveva il fisico di un atleta, sempre sorridente e ghiotto di noci; il secondo fratellastro si chiamava Harvey Junior, era dinamico, socievole, simpatico: il terzo figlio si chiamava Joseph e lavorava come tecnico specializzato in ottica in una grande gioielleria; infine il quarto era una ragazza che si chiamava  Martha. 
Joseph e Martha avevano la stessa età e sentimenti in comune, anche se lei era innamorata  di un tal Sommers di cui Joseph era confidente, che stava ultimando il servizio militare.

Fatto sta che tutto sommato quella famiglia era felice. Ma il 15 agosto di una certa estate, accadde un fatto che mutò l’atmosfera e la concordia dei figli: mentre il vecchio Lessing, servendosi di una canoa, dopo pranzo era andato a fare il pisolino sotto il pergolato nell’isolotto, qualcuno lo uccise, violando quello spazio d’acqua senza che nessuno lo vedesse, nonostante  la superficie dell’acqua fosse rimasta piatta, senza che niente o nessuno la solcasse: gli conficcarono in un orecchio un’oggetto appuntito che gli perforò la membrana interna dell’orecchio, trafiggendo il cervello e determinandone la morte.

Gli unici due sospettabili erano stati Joseph ed il fratellastro Junior, mentre Brownrigg a sua detta era rimasto da solo nella sala da pranzo e Martha era andata da un’amica. Inoltre il giardiniere giurò che nessuno avesse solcato le acque del lago diretto all’isolotto. 
Junior sapeva condurre una barca e Joseph sapeva nuotare, ma pare che nessuno dei due potesse essere stato. 
Fatto sta che stranamente venne incolpato uno dei due, che si discolpò e per non essere accusato dagli altri, li ricattò con l’unica arma con cui possa tenerli in pugno: la loro madre era morta pazza, quindi…

 Inoltre se si fosse venuto a sapere ciò, la famiglia sarebbe caduta in discredito e la  carriera del dentista sarebbe stata stroncata.

I giorni passavano stanchi, in una sorta di non belligeranza, in una calma apparente, finchè avvenne il secondo omicidio impossibile: Martha, era nella sua camera, apatica, appena uscita da una malattia, quando, contemporaneamente all’arrivo dell’avvocato di famiglia, improvvisamente ella salì nella torretta che sovrastava la casa, come inseguita da qualcosa o qualcuno invisibile e si chiuse là dentro: era una stanza quadra, priva di mobilio, usata per vedere in lontananza, data la sua posizione più alta di altre finestre della casa le cui uniche aperture erano la finestra sbarrata e la porta.
 La cameriera le corrè dietro, rimanendo però fuori. 
Appena entrata la ragazza nella stanza, sentirono un grido raccapricciante ed, entrati nella stanza, trovarono la ragazza, morta, con un’occhio trafitto da qualcosa che non si trovò  che aveva raggiunto il cervello: una morte simile ma non uguale all’altra. Nessun assassino nella stanza, nessuna possibilità che passasse dalla porta, perché era sorvegliata dall’esterno dalla cameriera.

Uno dei tre fratelli maschi venne accusato formalmente del duplice omicidio e per salvarsi obbligò i fratelli a giurare il falso, cioè che pazza era stata sua madre e non la loro: così evitò l’impiccagione ma non il manicomio criminale.

Dopo tutta questa rievocazione, l’ometto, uno dei fratelli Lessing giura di non sapere chi mai sia stato a compiere il duplice omicidio. E allora?
Analizzando gli indizi, Fell scoprirà la verità e darà un nome all’assassino. Che è….

Il titolo del racconto non si riferisce ad una errata deduzione, ma ad un interrogativo che ha una giustificazione solo nella mente malata dell’assassino: perché cioè è possibile che una madre pazza generi dei figli sani e una madre sana abbia generato un figlio pazzo? Cioè perché lui ha commesso il duplice omicidio (e Fell spiegherà la genialità delle soluzioni adottate perché i delitti apparentemente avvenissero per mano di persona ignota e in condizioni apparentemente impossibili) e come il cigno abbia avuto la gola squarciata: dopo la morte di Martha, sia Junior che Joseph mentre stanno passeggiando sulla riva del lago, nella parte posteriore dell’isolotto, notano tra alcuni giunchi a riva un cigno con la gola squarciata da qualcosa di affilato, come se qualcuno o qualcosa avesse voluto uccidere pure quel cigno.

Il racconto, che è uno dei racconti più famosi di Carr, forse meno di altri, ma che è memorabile giusta l’atmosfera che lo pervade, risente, come altre opere dello stesso periodo, di una certa malinconia di fondo, che lo avvicina ad altre opere come per es. She Died a Lady

Si nota anche l’accenno ad una certa ineluttabilità del male – che non si nota in altre opere carriane – al perché il mele avvenga e per il quale neanche chi lo commette si possa sottrarre alla sua sorte: come a dire che anche l’assassino è il pupazzo in un gioco che è molto più grande di lui.

Tuttavia vari accenni, secondo me, convincono Fell della follia dell’assassino, che però non è pienamente cosciente di quel che ha fatto, che non riesce neanche a spiegare per quale motivo lui abbia commesso i due omicidi (il primo per ragioni economiche: il testamento), il secondo per ragioni connesse all’amore tradito (la gelosia e il furore).

 Io penso tuttavia che il primo omicidio possa configurarsi anche come una vendetta, visto che il figlio aveva visto qualcosa di poco chiaro nella condotta del patrigno in occasione della morte di sua madre, perita nella stanza della torretta: non avrebbe detto infatti che essa era morta “..in una situazione speciale”.

Il fatto che giuri, prima, di non essere l’assassino: “..ve la sentite di giurare su quanto avete di sacro (se avete qualcosa di sacro, del che io dubito) che voi non conoscete la verità? Sì – rispose l’altro, serio, e annuì”; e di reiterare quest’affermazione, quando già Gideon Fell lo ha accusato di esserlo e ha spiegato anche come abbia ucciso senza che altri potessero metterlo in mezzo alle situazioni – e poi alcuni righi dopo ammetti di esserlo, dimostrerebbe anche una doppiezza dell’animo e della mente, una personalità dissociata in due entità completamente opposte, una innocente ed una non, una cosciente e l’altra incosciente, alla guisa di Mr. Hyde. Quello che dice (pag. 289, ultima pagina del racconto) è sintomatico di questo stato mentale alienato: “Voi non capite. Non ho mai voluto sapere chi uccise il Dottor Lessing o la povera Martha”. Chi parla è la parte incosciente dell’omicida, che non sa (ma suppone) se l’altra sua metà abbia o meno ucciso. 
Poi, poche righe dopo, lo stesso personaggio, la sua parte cosciente, dirà: “..ma non è questo il punto. Non è questo il problema. La loro madre era pazza, ma loro erano innocui. Io uccisi il Dottor Lessing, Io uccisi Martha. Sì sono perfettamente sano di mente. Perché lo feci, tanti anni fa? Perché? Esiste forse un disegno razionale nello schema delle cose ed una spiegazione al male su questa terra?”. 

In altre parole un solo personaggio ma sdoppiato in due personaggi, una personalità divisa in due, una cosciente ed una incosciente.

In sostanza quello che si ricava è il dubbio che pervade anche il lettore se l’assassino quando ha commesso gli omicidi, fosse cosciente o incosciente. 
Sicuramente però, il fatto che egli veda continuamente anche dopo, sulla superficie del lago, il cigno morto con la gola squarciata, cosa che non esiste nella realtà, rivela una stato schizofrenico, stati allucinatori, dissociazioni dalla realtà; ma rivela anche che in quell’essere, con gli occhi profondi e neri, c’è comunque la coscienza che risale in quell’anima perturbata, il rimorso che il male che è (era )in lui lo abbia portato ad uccidere delle persone innocue: il cigno, simbolo di purezza e di innocuità, per lui è un ricordo ossessivo, in un’opera fortemente simbolica come questa, in quanto rimanda, nella mente perturbata dell’assassino a Martha, sempre vestita di bianco, il cui vestito “appariva inamidato”.

C’è per me anche un altro indizio che Carr inserisce nel racconto, un indizio psicologico: l’ometto è vestito di nero ma ha un cappello bianco. 

A parer mio si tratta di un altro indizio della doppiezza psicologica di colui che l’indossa: male e bene, coscienza e incoscienza.

Per certi versi è l’opera che più avvicina Carr al suo più famoso erede, contemporaneo a noi, Paul Halter, nei cui romanzi spesso si affaccia il tema della follia.

Il racconto è comunque indimenticabile anche per l’atmosfera che lo pervade, per la maestria insuperata, di riuscire a creare un pathos con poche pennellate. Prima Carr descrive i luoghi, idilliaci o quasi: la villa in una valletta tra le colline, il lago artificiale su cui si affaccia, il pergolato in un isolotto al centro del lago, le stormire delle fronde, i tappeti verdi ben curati. Poi introduce una nota che è più triste, come una modulazione armonica in minore che fa presagire che qualcosa di triste si stia addensando: “all’ultima luce del giorno”.

 Il crepuscolo, in cui il sole muore, e arriva il buio. In quel momento quando “il crepuscolo stava già cedendo il posto all’oscurità…due uomini apparvero sulla cresta dell’altura. Uno era alto e snello. L’altro, che portava un cappello a tesa larga, era alto e corpulento, e sembrava ancora più massiccio controluce per il mantello che gli svolazzava dietro le spalle” la storia comincia ad incalzare. 
Innanzitutto vedono un ometto. Poi egli parla di un cigno morto che non esiste. Poi narra una storia, e mentre parla il tramonto cede il posto all’oscurità: tre uomini seduti ad una panchina di ferro, e due che sentono l’altro narrare una storia di delitti e follia. E man mano che il racconto cupo si snoda fino alla sua fine, l’oscurità si sostituisce al chiarore del tramonto, e l’epilogo avviene nella quasi oscurità, rischiarata dalla luce di un fiammifero: come è attestato dalla fine della storia, in cui viene riportato che “il fiammifero si piegò e si spense”.

Il finale è indimenticabile perchè termina non con un’esplosione, ma una implosione, che dona un’accento fortemente melanconico alla storia: “Poi..si alzò dalla sedia. L’ultima cosa che videro di lui fu il cappello bianco di tela, che si allontanava attraverso il prato e sotto gli alberi”. Che già era stato annunciato con un altro: “Questo delitto era incredibile, intendo dire incredibile non solo per le circostanze materiali, ma anche perché la vittima era Martha…morta durante una vacanza”.