AMORI PROIBITI : "Alene" , un racconto di Alessia Di Luzio






 La chiesa era buia, altissima, tutt’intorno l’odoroso incenso provocava una nausea fragile.
Le vetrate lasciavano entrare una fioca luce che rischiarava la navata e i mosaici colorati sulle finestre sembravano ravvivarsi.
Gli occhi di quelle figure trafiggevano il cuore di chi vi entrava, scrutavano per bene i visitatori ignari del peso che serbavano.
Sul soffitto vi era dipinto un Cristo e una scritta in latino “Ut diligatis invicem, sicut dilexi vos”, che facevano trepidare le anime tormentate ogni volta che alzavano lo sguardo.


Gli occhi giudicanti ma pieni di misericordia, riuscivano a perdonare gli errori? Questa la domanda che si porgeva quotidianamente Alene.
Si sentiva osservata, era consapevole che qualcuno la seguiva, i brutti pensieri le si attanagliavano nella mente senza lasciarla nemmeno per un istante, erano pensieri peccaminosi.
C’era dello strano nella sua vita.
E così aveva inizio il suo tormento in quella chiesa dove si recava ogni giorno, eppure nemmeno per un istante aveva mai pensato di chiudersi in convento, odiava le suore e il loro modo di vestire e quegli abiti stretti e coprenti e la vita al chiuso le incutevano spavento.
Aveva letto di suore rimaste incinte e perseguitate per aver commesso un sacrilegio. Ma quella chiesa aveva del fascinoso a tale punto che tralasciò i suoi studi per dedicarsi alla preghiera.
Almeno una volta al dì andava nella chiesetta, la canonica era vuota, ma lei si ostinava a trovarvi qualcuno. Un ometto basso, magro e canuto raggomitolato nel suo largo saio camminava lento per l’ampia sala. Corse in chiesa, quel vecchio le faceva paura, aveva qualcosa di tetro, sembrava un morto vivente. Nel pomeriggio freddo e monotono la visione del vecchio aveva scosso il suo pensiero, si sentiva agitata e un’angoscia mortifera le scorreva dentro, era la morte, si sentiva mancare.
Quel momento non si placò subito, le sue ansie erano a mille e immediatamente un gatto bianco le attraversò dinanzi, miagolò ferino, poi saltò di corsa sul ciglio della strada.


Bianchissimo, pulito, cogli occhi di ghiaccio che incutevano tremore.
 Ma era un gatto? Viveva? Si chiese Alene.
Non aveva mai visto una creatura simile, non era un gatto normale, quegli occhi bloccavano ogni suo passo.
Poi svanì di botto.
E la mente si calmò, soporifera, come presa dal sonno, e così accomodata nella navata centrale scattò. 
C’era un uomo in chiesa, era giovane. Non il vecchio mezzo morto, era un uomo in carne ed ossa. Finalmente un uomo in grado di poterle parlare:
“Salve” esclamò Alene.
“Salve, desidera me?” ribatté il giovanotto.
 Il cuore di Alene tremò, ebbe un sussulto forte, sembrava uscire fuori, poi rispose:
“No”.
Deglutiva ad ogni parola, aveva la voce rotta, era afona, le mani fredde ma sudate nelle tasche; sentì di nuovo uno svenimento.
 Di fretta accorse in strada ,aveva bisogno d’ aria, ma non poteva credere ai suoi occhi: il gatto bianco era riapparso lì e la guardava .
Si sentiva morire, gettò un urlo tale che sembrava posseduta, la gente si voltò,  poi si fermò d’un tratto .
Non riusciva più a fare un solo passo, era bloccata, con gli arti rigidi e tramortiti.
Che cosa le stava succedendo?
Aveva bisogno di un medico perché non si sentiva bene.
 La chiesa era scarsamente illuminata, rientrò sperando di sentirsi meglio, così prese posto e il suo cuore pian piano si placò.
Guardava il Cristo:
“Non puoi” balenava nella sua immaginazione.
L’aria era tagliente in quella chiesa vuota e larga: non voleva essere disturbata e stava bene sola.
Il deserto della sua mente la spingeva a pregare in modo decoroso con le mani giunte in un movimento raffinato, il viso raccolto e stanco da quei sentimenti turbolenti.
Aspettava che entrasse il prete, era l’unica persona che voleva vedere, nello stesso tempo provava una vergogna tale da arrossire ma ad un tratto di nuovo l’immagine del gatto bianco le si presentò e impallidì.
Maverìk, il sacerdote, entrò avvicinandosi all’altare con un movimento lento. I lumini erano disposti a cerchio e il grosso messale rubricato riempivano la sacra mensa. Ad un tratto l’uomo anziano si apprestò a portare pane e vino e sparì.
Maverìk aveva qualcosa di diverso, spesso celebrava a suo modo e quella sera intimorì il ristretto uditorio.
Due o tre donne sparse qua e là tra i banchi gelidi, lui inginocchio, le sue gambette rinsecchite toccavano il pavimento marmoreo e ne sentivano il freddo intenso.
Stette così per tutta l’ora : Alene poteva scorgere solo parte della testa. Più volte aveva provato ad allungare il collo per cogliere qualche altro particolare ma la posizione di Maverìk rimase la solita.
Era inorridita da quello spettacolo che aveva il tanfo di una seduta spiritica.
Uscì turbata.
Quello era un luogo sacro, non poteva succedere ciò che aveva visto.
Intanto aveva cominciato a piovigginare, c’era una fitta nebbia e l’unica cosa che Alene desiderava a quell’ora era un pasto caldo che la ristorasse.
Si incamminò sola, come al solito, verso casa.
Il corridoio era stretto, la viuzza di pietra e mattoni era odorosa di bagnato, ma rimaneva l’unico passaggio verso l’abitazione. Si apprestava ad aprire l’uscio quando si sentì toccare la schiena. Trasalì.
 “Chi cercavi?” disse una voce e subito un brivido caldo le passò tra le membra.
Deglutì più volte, poi rispose:
 “Cercavo lei”.
La casa era accogliente, il fuoco acceso scoppiettava da ore, la legna durò tutta la notte. Un peccato era stato appena consumato, un grave peccaminoso oltraggio.
La bocca di Maverìk tremava, era stata violata una legge.
 In quella casa tra le viuzze di uno sperduto paesotto serpeggiava la colpa.
Ma quella colpa dal colore rosso vivo veniva espiata dalla voglia e poi riaffiorava quando la solitudine avvolgeva i due amanti.
Tra le vie gli sguardi sbilenchi della gente sfrecciavano su di Alene: facevano rumore gli occhi di chi la guardava coi volti abbassati.
Ma in lei la gelosia era ardente, viveva solo di rovinosa passione.
La vita di Maverìk era stata distrutta per colpa della gelosia.
Decise di farlo.
Era questo il chiodo fisso di Alene anche se in cuor suo sapeva di commettere un grosso errore, ma l’idea la ossessionava.
Si presentò in canonica, solitaria e bianca, le tuniche appese alle sedie pronte all’uso. E poi campane, messali vecchi, alcuni bicchieri opachi posati sul cassettone e un armadio semichiuso, nulla più.
Il vuoto circondava la stanza.
Che fare? Agire? Andare in contro alla colpa, oppure pentirsi per sempre?
 Sentì un rumore, si impaurì.
 Era il gatto bianco.
 Scivolò dentro come un fulmine e si nascose. Alene lo temeva.
Poi Maverìk seguì il gatto, sbattendo la porta con forza, nervoso.
“Posso confessarmi?” Chiese Alene.
Maverìk camminando con passo lesto andò a prendere una croce ,la portò di là, era una croce di legno lucido.
“Cosa fai?” disse sbigottita.
Non rispose, si sedette e la invitò a parlare:
“Coraggio”.
Maverìk era avvilito.
Non poteva sopportare il peso di quelle parole, era un prete lui, non avrebbe dovuto preoccuparsene. Ne aveva sentite tante eppure questo non lo sopportava.
 “Dimmi che non è vero Alene”.
Lei annuì.
Maverìk aveva occhi solo per lei, era impazzito, quella confessione gli fece perdere la testa. La legge è legge e quell’abito scuro non gli permettevano il libertinismo. Ma andò contro la regola e sentì la colpa farsi viva dentro di lui, la colpa è di Alene, era questo il tormento.
Maverìk sentì la voglia di svestirsi, ma Alene era una tentazione. 

Il diavolo è dietro l’angolo e miagola.




Maverìk uscì di casa vide il gatto bianco passare svelto, si accovacciò e gli fece male al cuore.
Non vide più Alene da giorni, se ne preoccupò, così la sera decise di andare a trovarla, la porta della casa era aperta, si permise di entrare e all’improvviso si trovò dinanzi ad uno stanzone vuoto, udì un fievole miagolio. Tremò. “Alene” uscì dalla sua bocca un urlo strozzato e senza forze, era privo di ogni potere indebolito da influssi estranei.
Il fantasma si aggirava in lui e di Alene nemmeno l’ombra, così andò via desolato e rimasto solo nella strada corse verso la piazza, mentre il buio si apprestava a scendere e il cielo era nuvoloso, la sua mente non riusciva a capire questo malessere, così si accostò e gli cadde addosso un sonno velato.
Alene lo perseguitava.
Salì le scale assonnato e rincasò, si sentiva poco bene. Uno specchio mostrava il suo corpo privo di forze e sudato, ad un tratto vide il gatto bianco, miagolò con una voce rantola, Maverìk era terrorizzato da quel suono, aveva ceduto alla tentazione e come un urlo di Munch si coprì le orecchie, non voleva udire più quel miagolio assordante. I sudori non lo abbandonavano. Il fantasma di Alene era con lui, viveva in lui. Sentiva una grossa disperazione per aver perdonato una colpa inesistente, forse. “Alene dove sei?”
 Il diavolo lo aveva ingannato. 
Prese la testa fra le mani, si appoggiò al tavolo e restò così tutta la notte gridando scoraggiato “Alene, Alene lasciami”.
L’indomani decise di uscire a fare una passeggiata, lì vicino c’era il mare. 
Si incamminò da solo, non era vestito da prete e nessuno poteva immaginare che quel ragazzo lo fosse. Procedeva con la testa china preso dallo sconforto, smarrito nell’immensità del mare che tanto gli piaceva. Era nato in una cittadina sulla costa e ogni volta che si sentiva così desiderava riposarvi. Si sedette sul muretto, guardò lontano, gli occhi fissi al di là degli scogli gli rimandavano la figura di Alene. Ne era perdutamente innamorato. 
Il diavolo lo perseguitava, si intrufolava nella sua vita sotto le più svariate forme, provava a scappare ma ritornava malevolo rendendolo impotente.
 Un ricordo gli strappò una lacrima. 
Il suo primo bacio al mare. 
Era già prete, lo mandarono via lontano affinché espiasse le sue colpe. 
Si ricompose subito da quelle fantasie; Alene era la sua donna ora, la dannata tentazione che non gli dava tregua. 
Iniziò ad ansimare, il respiro si fece pesante, nonostante fosse seduto senza fare alcuno sforzo: “Ah lasciami”, gridò.
Una mano intorno al collo lo stringeva, si sentiva soffocare e non poteva muoversi. Il sudore lo bagnò, si tolse la camicia di dosso.
Il gatto bianco davanti a lui, quegli occhi lo raggelarono e un sussulto lo fece tremare.
Era stordito e corse via, capì che non poteva stare più lì. Tornò a casa certo che se avesse pregato per bene il diavolo sarebbe fuggito.
Disse tre o quattro Ave Maria tenendo in mano il rosario. La mente lucida e riposata gli permisero di addormentarsi, ma il sonno fu agitato e pensava ad Alene: “Come hai potuto?”

Il diavolo aveva usato un buon tranello, era bella, la sua carnagione chiara e liscia, i capelli scuri, gli occhi a mandorla.



 Maverìk provava un amore impossibile e passionale, che rumoreggiava imperterrito. Il suo cuore era sospeso, fermo, morto. Se solo avesse evitato di perdonarla, il male restava raddolcito nel suo angoletto.
 Il pomeriggio successivo Maverìk si destò tardi, era già l’ora della messa e scese in chiesa passando attraverso il portone di legno che nascondeva qualcosa.C’era Alene, lo cercava e si era appoggiata al muro fuori la chiesetta, sorpreso di vederla lì, era felice. 
Così in quel cantuccio nascosti dal mondo, le prese la testa e la baciò. Quel bacio era un addio?
Alene sentì che era diverso.


(Note: 1, Vangelo di Giovanni, 13, vv 35 :Amatevi fra voi, come io vi ho amato)



Alessia di Luzio

Nasce a Penne in provincia di Pescara, il 3 gennaio 1986, dove vive attualmente.
Laureata in Lettere Moderne all’Università “G. D’Annunzio di Chieti”, è insegnante di Lettere nelle scuole medie e nel tempo libero si dedica alla scrittura di storie fantasy e fiabe per bambini.
Si interessa di letteratura per ragazzi, partecipando a dei progetti in ambito scolastico e a molti concorsi letterari.
È stata segnalata al Premio “Midgard Narrativa 2017” con il racconto fantasy “Alene”.
Coautrice del libro di racconti QUANDO SCOPPIO LA PACE: 25 APRILE 1945 , Universitas Studiorum Editore, Mantova, 2017





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