C’è tutto Ermete Trimegisto, il grande alessandrino filo-egizio ovvero il messaggero e traduttore divino, Ermes, nelle liriche di Guglielmo Campione ed ogni pezzo compositivo, ogni singolo mattone dei suoi componimenti necessita la cazzuola e il cemento dell’ermeneuta più navigato ed esperto, ai fini della gestione complessiva del monolite psico-edile di ogni sua poesia.
E mai termine, a mio parere, risultò più pregnante e aderente all’afflato creativo di questa maieutica dell’anima giustamente ed a ragione prestato alla partorienza lirica, laddove egli sicuramente travasa la sua gnosis scientifica e mitologica che fa da sostrato alle esperienze vitali che l’hanno attraversato e che egli attraversa tuttora in un metabolismo, direi, ancora in fieri.
Scrive Th. S. Eliot: “Soltanto un cattivo poeta potrebbe accogliere il verso libero come una liberazione della forma”.
Guglielmo Campione nel suo percorso di affrancamento dell’animo si dimostra analogamente a suo agio sia nel verso libero che in quello rimato ed obbligato a ritmi e prosodia.
Ogni parola in lui si fa simbolo ed allegoria di un vissuto psichico inesausto e coinvolgente che suscita interrogativi reiterati nel lettore attento.
Andiamo per gradi ed addentriamoci nella prima delle tre sezioni compositive del suo libercolo di carmi,
quella dedicata ad ”Amore e disamore”.
quella dedicata ad ”Amore e disamore”.
“L’insolente accoglienza del giorno”: già nel titolo la creazione, specchio e scaturigine dell’ordito interiore, urge di un exordium antitetico ed ossimorico: chi accoglie non dovrebbe mai avere arroganza ed irriverenza, tanto più distante da questi empiti si immagina l’avvento della luce mattutina, solutrice delle caligini notturne! Eppure, il poeta è uomo che avverte questi forti contrasti nel vitalismo quotidiano. Il sussurro della formula più sublime pur se sovente sgualcita nel routinario effimero giornaliero, ”Ti amo”, diventa fonte di menzogna di difficile individuazione, ed è tremendo il sottolineare che la simulazione, la mendacia, elemento quant’altri mai avvelenatore del rapporto umano, ha l’impulso cristallino e sorgivo di una fonte d’acqua (“schizzò l’impercettibile bugia”). Ma l’amplesso notturno è di solito compagno di avidità oniriche mai aderenti alla verità e, alla luce del mattino, la fluidità dei corpi che si posseggono pare suggerire un humus idrico fallace ed instabile (“ti ho avuta fra le braccia per le astruse golosità del sogno e per languide vie d’acqua son scivolato al tuo fianco”).
Il mattino ridesta l’amante e la sua luce lo gorgonizza forse nell’immagine di un letto inopinatamente monco della compagna notturna (“impietrito dall’insolente accoglienza del giorno che suonava la dolente melodia della tua assenza”). La mixis di melos e odè, che scandisce struggentemente nel cuore dell’amante la visione del talamo abbandonato, si tronca e questa interruzione (“la cesura metallica”) ha un rimbombo (“l’eco si alzi fedele”) che evoca immagini di macabra impiccagione della pulsione sessuale (“pur se da argentee volte scenda lo scorsoio per il collo del desiderio”).
Il poeta rimbalza d’immagine in immagine, di metafora in metafora e l’ermeneuta si affascina in questa inesausta sorgiva psichica, interrogandosi sulla correttezza esegetica che quelle rappresentazioni gli suscitano; il riecheggiare della brusca sospensione della miscellanea di note e canto è al contempo eziogenesi del cappio sulla spinta erotica e cesura essa stessa di una sorta di inaugurazione del legame sentimentale, fotografato dagli elementi cardine di essa (una mano, un paio di forbici, un nastro).
Questa pausa irridente ed irriguardosa, scandita dal mattino con la sua luce rivelatrice insolente, genererà, però, immediato affrancamento nel maschio piagato e pur sempre anelante la libertà (“il mio corpo ribelle risorto dalle segrete della materia improvvida”, a sottolineare che la carnalità non è mai prodiga per i suoi fruitori, coinquilina com’è di una sotterraneità oscura che si dissolve al chiaror del sole).
Ma la delusione è come un ordigno inesploso, un monolitico proietto che si fa beffa dello scagliatore, del suo artigliere, condendo la disillusione di scaltrezze che hanno identica tipologia ed origine nella lussuriosa pancia di ogni essere vivente (“ancora rotolerà la bomba che attraversò i tuoi salotti melliflui, beffarda magnificenza memore dell’astuzia odissea racchiusa in egual ventre mortale”).
Questo è lo sforzo individuale e soggettivo dell’approccio ad un poeta che vive di figurazioni e simbolismi e chi lo tenta deve esser conscio dei limiti ermeneutici, trattandosi di un’opera sofferta di cui solo l’autore è pienamente in possesso!
Ma l’ermetismo non è omogeneamente sigillato ed inaccessibile. A volte il poeta produce metafore ben più agilmente fruibili e dipinge atmosfere intime più agevoli da discriminare e confrontare.
Si pensi a “Fiori perduti” dove è più da topos lirico l’immagine della mìxis en ànthesin: Guglielmo Campione ha chiaro sostrato classico e Omero ed Archiloco qui rimbalzano nella sua memoria, ma l’originalità sta nell’associazione fiore-amore-primavera-donazione in sottintesa antitesi con terra spoglia-odio-inverno-malvagità.
Gli abbinamenti psichici sono frutti soggettivi ed è sintomatico che altri autori possano intravvederne l’opposto a seconda del dettato della propria vita interiore.
A chi recensisce è capitato di leggere poesie molto più semplici di stampo vernacolare dove la stagione calda viene descritta come un anatema da rifuggire (Ch na femmn da pccat/ cuss viirn m so aggegghiat/ ogne sabt ‘n gann a mar/ m sckattav sta chmmar/ Mo ca venen l ceras /com jà fa a dart l vas?).
Vi è un’altra perla della 1^ Sezione in cui il poeta ribadisce le antitesi concettuali e le accelera volutamente quasi a creare un effetto choc nel lettore.
In ”Sole etiope” l’exordium col vocabolo “solitudine” suggerirebbe immagini tetre e fredde più congeniali e succedanee ad esso; invece, inopinatamente, l’abbandono brucia più di un’estate africana passata sugli altopiani inariditi ed abbagliati dall’astro del giorno. Che cosa rimane del ricordo di chi si è amato? Una chiostra dentale che ipocritamente simula, attenuando un volto paludato di personaggio drammaticamente vestalico e intimamente insensibile. Ciò che sopravvive è un “Io” assorto e muto in un balletto di danza classica che non ha nemmeno il parquet saldo e contiguo alla performance, ma la liquidità di una scioccante e pervicace paura del presente. Qui le ermeticità e i simbolismi si sublimano e nel contempo si fisicizzano in figure retoriche di eccellenza e ne rampollano sinestesie (“La solitudine è più cocente di un sole etiope”ovvero “il silenzio danza in punta di piedi” ) e paradossi (“ sulle acque del mio ostinato tremore”).
In “Un giorno qualsiasi di questi maledetti” (item che in chi legge pare riecheggiare le atmosfere abbaglianti della mitica “Summer on a solitary beach” istoriate mirabilmente da Battiato, altro sublime Ermes lirico-musicale) l’abbandono ha frantumato la compattezza abbinante e vitalistica del poeta rimasto orfano del suo legame sentimentale; la fragranza del pane, il profumo dei fiori, la potenza delle onde, la pienezza dell’esistere: questa la sequenza del passato vissuto in coppia. L’oggi è frantumazione, spoliazione, solitudine e anatema. E formalmente è interessantissimo notare la transitivizzazione di un verbum affectuum come “gemere” (“briciola di pane gemente ancora pane e rose”) che mutua il semantema dell’implorazione e dell’elemosina.
Eppure, fuit quoddam tempus cum poeta plene gaudebat amore;
lo si intuisce in “Africa”, flash mnemonico che sintetizza mirabilmente l’affresco della natura lussureggiante e lussuriosa, con la contiguità della voglia esplorativa traboccante e la simbiosi languida del calore atmosferico e sensuale: ”Africa negli occhi e tu nel cuore: palme tra le dita le tue burrose gambe”.
Dopo, ”L’abbellitore” fisicizza la paratia tra i due amanti attraverso un diaframma ideologico e d’approccio esistenziale probabilmente rivelatosi in corso d’opera. Troppo materialista la femmina per un maschio che ha inneschi interiori travalicanti la razionalità, il calcolo? Troppo matura lei per un infante gravido di speranza? “Soprattutto non fingere negli affetti, e neppure sii cinico riguardo all’amore; poiché a dispetto di tutte le aridità e disillusioni esso è perenne come l’erba”: rimbomba nella modalità dell’autore l’eco delle parole del Reverendo Frederick Kates, rettore della chiesa di St. Paul, a Baltimore, Maryland, divenute famose in tutte le lingue e in tutto il mondo: Di certo le metafore che sgorgano rincorrendosi sottendono un’ineluttabile dicotomia antipodica tra i due protagonisti, uno stare in vita bipolare fatto di cuciti, collanti e cosmesi inesausta verso il prossimo per lui, intessuto di arido pragmatismo monadico per lei e il desinit è estrema sintesi di questa concettualità in antitesi: chi usa il cannocchiale del cuore ha lungimiranza prospettica nel vivere, al contrario di chi non può vedere luce astrale in un’esistenza “guardata” a corto raggio con occhi nudi e materiali! L’autore ci perdonerà, ma l’enfasi e l’abbraccio intimo di questa sua mirabile lirica antinomica dei due mondi, ci spinge a seguire una traccia che egli in nuce ha già seminato negli anfratti del suo afflato poetico e provare a “vertere” in rima le sue stupende ed originali immagini interiori:
Sono l’abbellitore, restauratore ed imbellettatore,
quello che parla la parola del Creatore,
delle illusioni il pidocchioso cantore.
Abbellitore e sarto testardo e per la verità lupo dal pelo irsuto
di latte puzzo, io, idealista cocciuto.
Stelle io aggiungo col binocolo truccato
e meraviglie al tuo cielo spogliato.
Umori alcolici ed oftalmici in semantica mistione ed accoppiamento nel penoso toast di un cuore abbandonato ne ”La lacrima e la goccia”. E come una massa di leccornia amarissima entrambi lievitano e non possono esser nascosti. Eccesso di dolore e dei suoi falsi antidoti: un topos gestito qui dall’autore con un’originalità che si materializza nella fugace visione finale del fianco ispido del viso.
In ”Danza norvegese” il respiro dell’uomo e del professionista cittadino del mondo vivifica la miscellanea ambientale ed umana e colora significativamente le conoscenze che ne hanno attraversato il transito terrestre; così il gelo della Scandinavia e della sua fauna ittica sembra liquefarsi nel contatto carnalmente mediterraneo dei due amanti (“Ho la tua mano spagnola nella mia”, raffinatezza contenutistica e formale: non è da tutti usare disinvoltamente un’ipallage!). D’incanto un sistema cardio-circolatorio ibernato in arterie e vene a immagine di depositi scarsamente igienizzati prende a ripartire e a ribollire (“il sangue si discioglie per un timido miracolo. Nelle teche impolverate silenzioso e rapido sento il flusso arrivare”).
Nella successiva, “Musiche senz’eco”, di nuovo torna l’immagine del talamo a funzione “usa e getta” e le lenzuola modello kleenex sono lo specchio della vacuità di una carnalità mai vivificata da vero sentimento; le note non lasciano traccia nei cuori di entrambi, ma solo un suono che scivola via dalla mente e dall’anima!
Poi, ne “La ragnatela che resta”, per la prima volta ermetismo e simbolismo riescono a coniugarsi con metrica e assonanze ritmiche e l’esito non è affatto malvagio. Il poeta colora di tecnica il suo mondo interiore già naturalmente variopinto:
Nella sua voce c’era un calore
che dal petto a salutare si sporgeva il cuore.
Ma col passare del giorno
gli emigranti del dubbio fecer ritorno.
L’anno che venne poi arrivò una paura
che colorò il mondo di nero sciagura.
Così ondeggiando al vento come una vela
di lei non restò che fin ragnatela.
Quando il cuore è disabitato, al suo interno, come in una casa abbandonata e sporca, non restano che le tracce della presenza degli insetti: tutto è distacco in questa potente melodia lirica scandita dai concetti contigui di emigrazione, dubbio, paura, sciagura, vela e ragnatela e connotata di desolante infinita tristezza.
Fin qui la prima sezione della silloge intitolata “Amore e disamore” in cui la metabolizzazione del ”cibo” d’amore è soggetta ad un rallentamento sofferto e contrastato.
E’ un Guglielmo sentimentalmente ancora adolescente e il vulnus amoris non si cauterizza facilmente.
Nella II Parte, ”Amore e Psyche”, l’uomo va lentamente, se così si può dire, mitridatizzandosi al venenum amoris; i due amanti vivono una dicotomia perenne e sembrano sfuggirsi infinitamente, quasi che una forza soprannaturale si frapponga ad ostacolarne il pieno possesso reciproco, la profonda compenetrazione dell’uno nell’altra; il mito va riletto per comprendere appieno la rielaborazione intima della sofferenza d’amore, dell’alternanza ineluttabile di eros e thanatos. Come i due amanti del mito possono goder l’uno dell’altra, l’uno nell’altra nottetempo, così le liriche di questa sezione aprono lo scrigno della lotta endogena che genera nel poeta la dualità dell’amore. Ma i contrasti, il risentimento, il rancore vulnerato della prima sezione sembrano lasciare il passo ad una rassegnata pur se dolentissima malinconia, all’assuefazione di chi ha oramai cicatrizzato le piaghe e non se ne sconvolge più.
“September on my mind”: settembre schiude le porte alla mestizia, anticamera dell’uggioso autunno in ineludibile pendant con la transitorietà dell’amore. Le spezie aromatiche e piccanti sembrano controcanto alle dolcezze del frutto della nostalgia di chi si è perso. L’autunno fisico diventa simbologia di quello del cuore e la caducità delle sue foglie apre la metafora della soluzione al gordianesimo della mente che invano s’interroga.
“T’incontro, m’incontro”: lo struggimento cede il transito alla rassegnazione verso qualcosa d’inevitabile e l’autore pare oggi crogiolarsi in un “Io” che ha imparato a gestire le sconfitte. Venga o no il rendez-vous con l’amata, già il desiderio di rivederla è dolcezza e cullare quest’esigenza è di per sé linimento. L’uomo maturo sa esser meno impulsivo e più indulgente verso sé stesso. Imbattersi in un’aspettativa intima è già balsamo al dolore, ove essa non si realizzi. Il poeta sembra una sorta di padre amorevolmente comprensivo nei confronti delle proprie recalcitranti pulsioni più bambine e genuine ed è sintomatico che la sintesi di tale stato d’animo si concretizzi in chiusura con una dolcissima litote attenuativa (“non può non farmi felice incontrarmi con un desiderio così sia che t’incontri davvero sia che incontri solo me”).
“Chiudi i tuoi occhi”: meraviglie, fiumi, monti, fiori, bestie in calore: donna amata e natura paiono in simbiosi e la femmina agognata ha la misteriosità e l’inattingibilità sacrale e nel contempo rivitalizzante dei fenomeni naturali più affascinanti. Buio e bagliore, sussurro e scroscio d’acque rigeneratrici, urla e ninne-nanne: il gioco sapiente dei contrasti si fa sema, concorde relazione tra pulsioni fisiche dell’amore e riflessi psichici di esso in una rinnovellata fiaba di Amore e Psyche cui la sezione dà il titolo.
“Liquida e cangiante”: l’accoglienza connaturata alla muliebrità vivisezionata in contrasto alla mutevolezza psichica fisiologicamente altrettanto femminea brilla di originalissima luce nella similitudine della sorgente idrica iridescente nel quotidiano avvicendarsi atmosferico. Ad essa fa controcanto la penetratività maschile in sapiente metafora solida rocciosa ed aspra, in perenne ricerca del riflesso androgino. L’eco del mito platonico pare insopprimibilmente rimbombare!
“Dove finisci tu”: torna incoercibile l’ansia dell’incontro-confronto con chi si ama, scandita da una verosimile alternanza monologico-dialogica che aspira intensamente alla reiterata ricomposizione androgina. E’ l’invidia degli dei, per dirla con Platone, che separa la coppia mandando Ermes messaggero paludato dentro l’infantilismo di una Lei o l’immaturità capricciosa di un Lui? E’ lui il theòn àngelos che seppellisce la gioia, determina isteria e genera il mistero? L’autore sa che il mito sottende l’arcano di sostrati psichici di non facile decrittazione e i suoi interrogativi sono l’angosciosa meditazione sui temi della transienza dell’amore.
“Surrender Blues”:
Surrender Blues
By Gregg Inhofer
I got out of the driver’s seat. I said, hey listen man. I got to cool my feet. So gimme a minute to untie my shoes and I’ll tell you ‘bout surrender blues. I don’t know where it all began. I was a mess I think, at least that’s what I hear from my friends. My soul didn’t know if it was dead or alive, but I’ll tell you what I didn’t do. I didn’t surrender. No, I didn’t surrender. I couldn’t remember that I didn’t drive that well. So I picked up my own butt and climbed back into my rut. I was drivin’ myself and that car down the highway to hell.....o, it’s me again. Your helpful neighborhood ego, masquerading as your best friend. So throw me those keys and let’s go for a spin. Don’t tell me you won’t try it ‘cause your parents wouldn’t buy it it’s a sin.....ergy is what we need here. We need to establish a connection that is crystal clear. But lemme just warn you what I’m all about. I’ll leave you when you’re down and out. But I didn’t surrender. No I didn’t surrender. I still couldn’t remember that I didn’t drive that well. You see, I was gonna be a rock star. Play by night ad sleep by day. Then one day I looked into a mirror. And I nearly fell over from the sheer shock of realizing that yes indeed skin does wrinkle And my hair was turning gray. I turned ‘round and ran out from the room. I laid down on my bed, I felt like I was back in the womb. And that’s when I voice said you should be glad you’re alive. So throw me those car keys, fool, so I can drive. And so I surrendered. You bet I surrendered. I finally remembered that I didn’t drive that well. Now I sit by the window watching the wind blow. I finally surrendered, yes I did, to the surrender blues.
Abbandonarsi, giocare, sguinzagliare la fantasia per non arrendersi ad uno sbiadito e sciatto calcolo razionale. E di nuovo la fenomenologia atmosferica africana, che il protagonista deve aver vissuto a lungo, torna ad esser rappresentazione vitalissima dell’opposizione al computo, della resa alla natura con i suoi messaggeri inarrestabili (tamburi, palme, banani stuprati dolcissimamente dall’eros violento ed eiaculante di uragani, piogge, tropicali e cieli neri) e ancora lo specimen di Amore e Psyche riecheggia nel riflesso di una sorta di terra muliebre che casta inceste, per dirla con Lucrezio, si offre innocente alla penetrazione delle forze della natura. In questa ricerca di capitolazione nei confronti delle pressioni vitali dell’animo, dell’eu daimon psichico, il cervello, la ragione assume le sembianze del Male, del kakudaimon, semanticamente scritto con l’iniziale maiuscola (“di nuovo prigionieri di quel Diavolo del cervello!”). Fisiologicamente le immagini altamente e specularmente simboliche di eros e physis, contenutisticamente elevate, geminano elevata formalità condita di sinestesie (spiriti fluidi, insipida concretezza) ed ossimori (accarezza sferzando).
“Giungla elettrica”: tra paradossi (amori mai amati, nemici mai odiati) ed ossimori (debole superbia) emerge per la prima volta un Io disperante e disperato che si rivolge alla divinità sconvolto dall’incomunicabilità umana, non più circoscritta al rapporto maschio-femmina, ma debordante in ogni relazione sociale. Le paratie sollevate tra gli esseri umani diventano le barriere naturali che l’Africa selvaggia ha già insegnato all’autore con le sue sequoie, liane, anaconda e zebre. L’interlocuzione con la donna è un gravame oppresso da strutture metalliche che imprigionano la spontaneità primitiva.
“Gli uomini si ammalano”: il dramma della monadicità che si fa ingravescente con l’età che avanza urla la sua disperazione. Spes e fides svaniscono dietro un taedium che vanifica le capacità di discrimen. La scelta del romitaggio, dell’uomo eremita di sé stesso miete le prime vittime innocenti: la femmina, madre o compagna che sia, destinata ad esser sola ed incompresa.
“Di te non racconti più nulla”: acqua e sole, liquido e calore sono i penetratori della femmina, suoi amanti di regola complementari e co-funzionali ad essa. E invece qui il poeta li vede scissi e rivali l’uno dell’altra. Ma il microfono è in mano ad uno solo dei due contendenti, all’acqua capace di ingravidare la terra a differenza dell’astro giornaliero che è arido e improduttivo, in grado di essiccarne ogni fecondità! E’ una lirica sensibilissima ed originalissima che probabilmente riflette una triangolazione individuale patita dal poeta con un altro lui ed una lei sicuramente infida. Anche qui l’elevatezza del sentimento approda ad
un’eccellenza tecnica generatrice della seconda esperienza rimata, seppur scazonte all’ultimo verso. Ipotesi restaurativa per l’ultimo distico:
quando una goccia, leggiadra ancella amata,
di nuovo per l’aria gemendo ti vedrà bagnata
“Gli uomini chiudono”: c’è tutto il termocauterio delle piaghe d’amore e tutta l’accondiscendenza fiera ed orgogliosa del maschio finalmente maturo ed indipendente. Riecheggiano le struggenti parole della canzone di Zucchero: ”Non ho più paura di restare senza una donna!” La luce crepuscolare è l’innesco di un ricordo dolcissimo, ma oramai cicatrizzato che apre il varco a nuovi incontri, nuove sfide per gestire una solitudine che da grandi non terrorizza più, pur nella presa di coscienza della sua infinita durezza! Ci vuole coraggio per affrontare la grandezza, la ricchezza, la bontà e la crudeltà del mondo che ci attende nella nuova dimensione del single, ma la sorpresa di ogni nuovo incontro vivificherà il maschio rinato.
“Casablanca”: di nuovo il tramonto in chiusura di Sezione. La favola di Amore e Psyche nel suo tremendo chiaroscuro, nella sua soffertissima dualità amore-luce/tenebra-morte trova il suo fregio al tempio perennemente innalzato ed incrollabile della pulsione androgina. E lo sfondo del crepuscolo marocchino incendiario riempie la tavolozza dei pigmenti carnali e spirituali della coppia. La vista, l’olfatto, l’udito, il tatto suonano una sinfonia scenografica ultimativa alla giunzione creo-psichica dei due amanti. E di nuovo in clausola i temi della resa, il desiderio di naufragio nel vortice dei sensi in quell’incontro scandito dalla perizia tattile di una sorta di sartoria dell’amore, esaltata dalle metafore tessili suggerite dalla sensualità dell’amata il cui corpo è all’unisono velluto, bisso e seta! (“tra pelle e cuore nessuna distinzione”: di che anno sarà questo componimento? Chi è l’ante litteram tra Campione e Venditti?).
Ed eccoci approdati alla III Parte, ”Amore e Divino”, dove il viaggio del poeta travalica l’interlocuzione del dramma (nel senso di rappresentazione scenica quotidiana) d’amore per accedere a percorsi e paesaggi meditativi che incombono nell’età matura ed affiora una ragguardevole capacità analitica e contemporaneamente un’attitudine alla fotografia di sintesi di tutti quei valori, apparentemente silenziati o fisiologicamente assenti nell’età giovanile, ora in emersione a mo’ del riflusso di un’onda dolcissima ed al contempo inarrestabile: l’acqua come elemento primordiale catartico e vitalizzante, la terra d’origine, con i suoi umori, colori, odori e tradizioni, abbandonata per ragioni di sopravvivenza, ma a cordone onfalico intranciabile, la riflessione sull’infinito, specchio dei propri conflitti interiori di cui l’antinomia apparente di sguardo esteriore (ophthalmos) e occhio psichico (thymos) rappresenta simbologia pregnantissima, il figlio, il tempo.
“Le quattro stagioni della Ninfa”: che simbologia sottende la Ninfa di questa lirica scritta con la metrica dal cuore d’Ermes che batte nelle vene dell’inesausto poeta? Di quali timori Ella è fugatrice? Forse della caducità del corpo e della pulsione sessuale simboleggiata dalle quattro stagioni? Il poeta traccia un suggerimento per la pausa alla sofferenza, la strada del cuore è l’unica che può travalicare e nobilitare gli istinti giovanili in una cognizione del soffrire che forse solo la maturità insegna. Ermes-Guglielmo si dilata e si schiva, crescendo e maturando, e lascia spazio a nuovi orizzonti di potenzialità poetiche, magari inesplorate agli esordi, confezionando qui un carme di 24 versi a rima baciata e 4 di sagace cesura a rima alternata.
Di svelar io non temo la segreta mia Saga.
ma fugar voglio presto il timor d’una piaga.
D’ogni cosa parlar poi si può banalmente, in gran conto e di fretta
oppur scriver delle cose più rare lentamente e con prosa perfetta.
Per mio stile io non scelgo la prima
preferendo parlar di avventure,
così canto il mio sogno con rima
per scacciar ogni po’ di paure:
ero d’Aprile in un campo di grano
con la schiena adagiata su d’un bel Melograno
quando una Ninfa vien dal Paradiso
a cantar del suo cuor con un dolce sorriso.
Più tardi in Agosto la più calda stagione
nello Stretto fatal mi trovai s’un barcone
a sentir la mia Ninfa s’uno scoglio distesa
pizzicar la sua Arpa con un cenno d’intesa.
In Novembre nel bosco
che più non conosco
mi trovai poi d’incanto perduto e impaurito
a trovare la strada seguendo un suo dito.
Ora in Gennaio di fronte al camino
seduto all’indiana su un enorme cuscino
ascolto la sua voce venire dal fuoco
pregandoci tutti di star sempre al suo gioco:
se c’è forse un sol modo di serbare il bambino
è questo poi l’esclusivo cammino.
Quanto infatti cerchiam di evitare il dolore
strada non c’è se non quella del cuore.
“Del divenire delle cose e delle sensazioni”: l’occhio ha perso la tridimensionalità e non riesce a penetrare la profondità e l’altezza del vivere; la lama dello sguardo ha deposto l’acumen e l’affilatezza. Chi darà ossigeno alle pupille del poeta? L’animo indica la soluzione: bisogna tornare ad esser madri fertili nel cammino dell’umanità e della terrenità che ci circonda, per evitare il naufragio dei sentimenti e la loro deriva.
“Degli orizzonti che periscono”: di nuovo occhio e spirito in penetrante dialogo. Le sensazioni monche e decolorate del primo bramano ermeneia dal secondo. E’ notte fonda per lo sguardo, la luce pare tramontata da un pezzo. L’animo si autoaccusa per la retroflessione patita dal suo partner: ”Povero illuso! Credevi di essere autonomo nella visione, invece l’eziogenesi della tua docimologia visiva è in me. Sono stanco di ricamartela e adesso vedi solo la bruta stoffa grezza e mai più lavorata!” E’ lo spirito la nostra luce. Se esso si spegne, per lo sguardo è buio pesto! “Mai introflettersi!”, suggerisce il poeta.
“Finis Terrae”: qui si apre tutto il caleidoscopio del Guglielmo sub innamorato e lo stazionamento sul molo innesca le sensazioni più profonde e coinvolgenti: l’oblio del caos di città, la resa alla luminosità del cielo o all’oscurità della notte, il buio mezzano e ruffiano delle pulsioni erotiche più forti, l’immersione e la caccia alla fauna marina per l’eccitabilità del palato in un inopinato anelito ricompositivo androittico presago di una fine quanto più demolitiva e dispersiva si possa immaginare! Originalissima l’immagine da Ring Komposition finale: noi che avemmo i pesci in pasto andremo in pasto ai pesci, una volta morti, in un’anularità riconciliativa.
“Cieli notturni 1”: vira l’occhio del poeta sull’Infinito e il suo ophthalmos ritrova la profondità, poiché l’animo sa che ciò che passa lascia tracce non sempre dorate interiormente ed il manto celeste notturno pare metafora della transienza e degli incroci umani nel quotidiano; vano è dunque l’esprimer desiderio se la scia meteorica è mero infingimento di una coda stellare.
“Fedeli seguaci di Apollo”: sembra un passaggio di testimone tra un tempo giovanile che fu dionisiaco e un tempo maturo che è apollineo: cieli, angeli, fiori, una sequenza luminosa e soave in severo contrasto con l’anelito di fuga dal fuoco che ancora separa dalla cristallinità refrigerante e catartica della creazione lirica.
“Polvere di stelle”: polvere, neve, notte, sonno, silenzio e morte: mai il poeta è stato così assorto e meditativo! Il Guglielmo vitalistico e dionisiaco delle prime due sezioni lascia il posto ad un uomo maturo che pare non più affascinato dalla pulsione androgina, ma che impara a prender dimestichezza con i misteri dell’Infinito.
“Dimmi che un giorno risorgeremo”: la struttura penta-imperativo-esortativo-dichiarativa si dipana in cinque quadri evelpistici contigui ed allacciati logicamente, semanticamente ed apotropaicamente nell’attesa di un’anastasis non solo escatologica e carnale da fervente credente, ma omnicomprensiva, nell’ansia del recupero finale di quella terrenità nostalgica che è stato il filo forte del tessuto vitale dell’autore. Assieme ai nostri corpi dovranno risorgere gli elementi naturali che li supportarono vivificandoli: sole, vento, almi patres delle giovanili promesse, l’arcobaleno dissolutore delle angosce di resa; e con la loro risurrezione si corroborerà la certezza dell’evaporazione della perdita della speranza, dell’accensione della camera combustiva di ciò che si fu, da ricomporre in una rinnovata mistione pittorica e la sicurezza definitiva di ritrovarsi sotto dimensione spirituale, rifocillati paternamente nella grotta della Meta finale di questo romitaggio terrestre. ”Straripanti promesse accartocciate, aridi silenzi e assenze, la fornace del ricordo”: una lirica così simbolistica non può che abbarbicarsi alle sinestesie più disinvolte e aderenti all’afflato creativo dell’autore!
“Acqua”: palinodia ricapitolativa dell’elemento principe della vita e della floridezza del pianeta in una sintesi mitologica, storica, geografica e scientifica dove l’autore travasa tutto il suo sapere e lo dona al lettore senza saccenteria e prosopopea. Profonda è l’episteme dell’autore in rapporto speculare al bathy ydor che egli istoria in analisi e sintesi mirabili!
“Terra”: sembra lontano il poeta dalla mitica terra natia, l’Apulia alma mater, ma l’orma dei piedi, che batterono ventennalmente quelle superfici indimenticate e mai rimosse dall’humus dell’uomo, ha lasciato una traccia indelebile nell’eredità culturale e umana di Guglielmo e tutto il suo essere, tutto il suo esistere sono un lascito inestinguibile, un ktema es aiei che egli non solo porta impresso interiormente, ma che travasa da una vita nella modalità dell’ascolto, accoglienza, e comprensione. Egli odora intimamente di zolle, cicale, eucalipti, granchi, lucertole, chianche, ulivi, marosi, papaveri e spighe. Di rado ho letto sintesi più mirabili e pregnanti della nostalgia, etimologicamente, il dolore per la privazione del ritorno! Guglielmo Odisseo!
“Semola e incenso”: gente estranea di Bari, prendete questo pinax lirico e appendetelo nelle vostre case! Questa è la fotografia olfattivo-psichica di chi esce dalla Basilica del Santo Patrono. Non vi è terra che mischi più carnalmente il sacro col profano in una giunzione purissima ed aureolata! Il Santo attiguo ai vicoli di quelle case di quei marinai che andarono a rapirne le ossa a Mira, annusa l’odore dei panzerotti, del ragù ”tetrasarcino”, delle case prive di fogna, delle alghe del Lungomare e ne sublima gli effluvi con l’incenso del tempio. Bari, San Nicola: cordone onfalico irrescindibile! Torna in mente Baudelaire: “Les parfums, les couleurs et les sons se répondent!”
« Lava i tuoi piedi »: il lavacro della Messa in Cena Domini, istitutivo del ministero sacerdotale, pare simboleggiare uno spirito di servizio anelato dal poeta da parte di qualcuna/o che ha da tempo la mente inviluppata nell’arroganza. Desiderio di liturgia, di servizio, di umiltà da tempo sconosciuti in un mondo monadico ed egoista?
“Grazia”: di nuovo anelito e invocazione all’elemento acquatico vivificatore della vita dell’uomo sulla Terra. L’acqua è un dono gratuito per l’essere umano e la sua apparizione è foriera di sensazioni di calore, gioia, accoglienza e pace.
“Benvenuto enfant”: ed ecco la sfida del figlio venuto in tangibile benedizione dal Divino ad accendere l’innesco d’immortalità di ogni padre, con la preziosità di un gioiello che, ancorché muto, parla al cuore di chi l’ha generato, fornendogli il calice di un liquore inebriante e stimolante. La potenza sintetica di quest’analisi delle sensazioni merita un brevetto. Guglielmo davvero Campione della fotografia dell’animo!
“Alone under the sky”: sembra di risentire la pulsione androgina, il mito delle mele che sono il simbolo principe del dyo en eni, della sfericità, della rotondità. E sintomaticamente la sinfonia di fondo in queste sensazioni viene nuovamente suonata dall’altro elemento che catalizza le pulsioni ansiose del poeta: l’acqua generatrice della vita, liquido amniotico a cullare il dyo che diventa en.
“Tempo che fugge”: la corsa del tempo ci coinvolge a dilatare o saturare gli spazi divisori tra i sentimenti umani. Il tempo ha un ritmo autonomo che prescinde dai suoi strumenti di misurazione, una compattezza che si fa beffe della fragilità cartacea di un ebdomadario, non ha padroni, non ha proprietari, non ha legittimi né legittimari, è intrattenibile e ingombra col suo moto inarrestabile le ansie e gli aneliti dell’uomo. Non v’è antidoto alla sua fuga, poiché ogni riflessione sul passato, sul presente e sul futuro ci rimanda ad esso, alla sua eterna ribellione, al suo continuo dispetto, al suo essere intransigente. L’acqua, la terra, gli amori: Guglielmo ha narrato amici ed avversari pronti a dare e ricevere carezze e cazzotti. Il tempo è imbattibile, un avversario che ti lascia con le ossa rotte.
“Quel giorno a Santa Cruz”: quale immagine più congrua della ricerca dell’elemento primordiale se non un flash mnemonico scattato alle Isole Canarie? Onde che bramano uno schianto dolcissimo col corpo umano, visioni di corpi annegati e inceneriti nell’attesa della ricongiunzione eterna con la thalassa meter che vengono paradossalmente a farsi oggetto di fqÒnoj da parte di chi è in vita. E di nuovo il poeta canta questa sua ansia di ricomposizione anulare con l’elemento protogenès già mirabilmente istoriato in “Finis Terrae”.
“Così venne la nostra ora”: ultimativa, la Guida alpina diventa simbologia pregnantissima dell’ultimo salto: la salita sulle Tre Cime di Lavaredo con lo specchio del verde catino sottostante è vettrice di un brivido di trapasso che il poeta lascia volutamente irrisolto. Ma è il diktat definitivo del Duce alpestre il risolutore delle angosce in un afflato infinitivo raggelante e consolante al contempo: “La visione di chi è dietro di Me si deve necessariamente omologare alla Mia!”
“Dialogo segreto”: dalle secrete del fratello mare il subacqueo creativo colloquia col liquido amniotico ripetitore della primordialità rinnegata alla nascita. Il germano urla ribelle una sorta d’ira rancorosa per il distacco dell’uomo e questa rabbia si fisicizza nei giorni di tempesta a chi immergendovisi tenta invano di suturare la piaga purulenta del tradimento e della separazione. Il dialogo della maturità con il mare amante tradito sembra la palinodia di quelle dicotomie vissute dal Guglielmo giovane con l’elemento donna. Conoscersi profondamente entrambi non giova ad una ricomposizione, ma proprio quell’exordium (“Lo so come sei”) gronda rassegnazione.
“Pietra grezza”: la lettura dell’Esodo si fa riflesso della meditazione del poeta sull’intima ed individuale liberazione dalla schiavitù. Ognuno di noi è stato un piccolo e grezzo Mosè e potenziale diamante anche in virtù dei servigi che una qualunque Memnet ha pattuito con chi ci ha salvati, accolti e custoditi in attesa dell’apertura del nostro Mar Rosso! Episteme e individualità in Guglielmo sono sempre in rapporto speculare! Mitologia, Sacre Scritture son tutte rielaborate in maniera fisiologicamente didattica ed epidittica!
“Visita Interiora Terrae”: e alla fine del percorso simbolistico-ermetico, fregio al Tempio con il famoso VITRIOL, acronimo temutissimo dagli alchimisti. VISITA INTERIORA TERRAE – RECTIFICANDO INVENIES OCCULTUM LAPIDEM: è l’invito finale al termine del tragitto di Guglielmo dottore dell’anima, subacqueo, poeta, marito e padre; una poliedrica creatura tesa a indagare incessantemente l’anima e lo spirito ai fini di una purificazione escatologica.
E nello scavo interiore ci ha accompagnato sintomaticamente in tutto il libercolo proprio il fine della ricerca, quell’Ermes misterioso di cui parlavamo in introduzione, il maestro di ogni conoscenza recondita ed alchemica.
Sole, Luna, Acqua, Zolfo, Mercurio: li abbiamo trovati tutti in questo percorso, scanditi dall’impulso yin e yang e scortati dal linguaggio ambiguo di Ermes che contiene in sé le due nature!
In chiusura di questo cammino entusiasmante alla scoperta delle profondità e delle ambiguità di Guglielmo ci sia consentita una docimologia strutturale compositiva dell’opera; il poeta, l’uomo, il professionista Campione, che abbiamo l’onore di conoscere da bambino, non poteva, nella sua poliedricità e complessità interiore, non essere pitagoricamente armonico e proporzionale nel suo prodotto. L’opera si compone di 53 poesie distribuite nelle tre parti che la strutturano in questa successione:
- 18 in “Amore e Disamore”;
- 12 in ”Amore e Psyche”;
- 23 in ”Amore e Divino”.
Orbene la somma delle poesie della Parte II e della Parte III (35) è in rapporto aritmetico(1,5) con le poesie della Parte I (18).
Chiosiamo felici con le parole dell’architetto Leonardo Celestra a riguardo di ogni struttura notabile: “Quando parliamo di estetica compositiva, sia essa architettonica, pittorica, musicale o addirittura frutto della natura, parliamo di proporzione e di misura. La bellezza non è mai elemento intrinseco di una singola unità, ma è il frutto dell’accostamento o del frazionamento proporzionato, dove più elementi, posti in relazione, generano una nuova unità percettiva. Come una parola ha senso preciso soltanto in rapporto ad altre, così l’estetica compositiva necessita della rottura dell’elemento unitario in più elementi in relazione fra loro. Nel relazionare elementi, all’interno di una composizione, possiamo ottenere degli accordi o dei disaccordi, a seconda se essi son relazionati in maniera armonica o disarmonica”.
Come le singole poesie si rincorrono intersecandosi e correlandosi, così la struttura compositiva de ”Il lungo cammino del fulmine” risulta mirabilmente accordata nelle sue macro componenti!
E’ stata un’avventura bellissima scoprirlo!
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